Un articolo in più, qualcosa in meno: ecco il testo unificato sull’equo compenso

L’equo compenso dovrà come minimo passare ancora una volta alla Camera dei Deputati: ieri sera ho avuto modo di leggere il testo unificato che la Commissione Lavoro ha messo a punto e che verosimilmente voterà in sede deliberante la settimana prossima.

Ci sono diversi cambiamenti, alcuni linguistici, altri poco incisivi, qualcuno però essenziale.

Sarebbe quindi bene confrontare, articolo per articolo, i due testi, quello uscito dalla Camera (il cosiddetto “ddl Moffa”) e quello risultante dall’unificazione della proposta Moffa e della proposta Lannutti.

Prima inserirò il nuovo testo, poi, in grassetto, quello uscito dalla Camera dei Deputati.

 

Art. 1.

(Finalità, definizioni e ambito applicativo)

   1. In attuazione dell’articolo 36, primo comma, della Costituzione, la presente legge è finalizzata a promuovere l’equità retributiva dei giornalisti iscritti all’albo di cui all’articolo 27 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, e successive modificazioni, titolari di un rapporto di lavoro non subordinato in quotidiani e periodici, anche telematici, nelle agenzie di stampa e nelle emittenti radiotelevisive.

 

2. Ai fini della presente legge, per compenso equo si intende la corresponsione di una remunerazione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, tenendo conto della natura, del contenuto e delle caratteristiche della prestazione nonché dei trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria in favore dei giornalisti titolari di un rapporto di lavoro subordinato.

 

Art. 1.
(Finalità, definizioni e ambito applicativo).

1. In attuazione dell’articolo 36, primo comma, della Costituzione, la presente legge è finalizzata a promuovere l’equità retributiva dei giornalisti iscritti all’albo di cui all’articolo 27 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, e successive modificazioni, titolari di un rapporto di lavoro non subordinato in quotidiani e periodici anche telematici; nelle agenzie di stampa e nelle emittenti radiotelevisive.   
2. Ai fini della presente legge, per equità retributiva si intende la corresponsione di un trattamento economico proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, in coerenza con i corrispondenti trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria in favore dei giornalisti titolari di un rapporto di lavoro subordinato.

 

Come si vede, a parte qualche cambiamento linguistico, qui la sostanza è la stessa.

 

Art. 2.

(Commissione per la valutazione dell’equo compenso nel lavoro giornalistico)

    1. È istituita, presso il Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri,la Commissione per la valutazione dell’equo compenso nel lavoro giornalistico, di seguito denominata «Commissione».

2.La Commissione è istituita entro 30 giorni dall’entrata in vigore della presente legge ed è presieduta dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per l’informazione, la comunicazione e l’editoria. Essa è composta da:

a) un rappresentante del Ministero del lavoro e delle politiche sociali;

b) un rappresentante del Ministero dello sviluppo economico;

c) un rappresentante del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti;

d) un rappresentante delle organizzazioni sindacali dei giornalisti comparativamente più rappresentative sul piano nazionale;

e) un rappresentante delle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei committenti comparativamente più rappresentative sul piano nazionale nel settore delle imprese di cui all’articolo 1, comma 1;

f) un rappresentante dell’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani (INPGI).

    3. Entro due mesi dal suo insediamento,la Commissione di cui al comma 1, valutate le prassi retributive dei quotidiani e dei periodici, anche telematici, delle agenzie di stampa e delle emittenti radiotelevisive:

a) definisce il compenso equo dei giornalisti iscritti all’Albo non titolari di rapporto di lavoro subordinato con i quotidiani e con periodici, anche telematici, con agenzie di stampa e con emittenti radiotelevisive, avuto riguardo alla natura e alle caratteristiche della prestazione nonché ai trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria in favore dei giornalisti titolari di un rapporto di lavoro subordinato;

b) redige un elenco dei quotidiani, dei periodici, anche telematici, delle agenzie di stampa e delle emittenti radiotelevisive che garantiscono il rispetto di un equo compenso, dandone adeguata pubblicità sui mezzi di comunicazione e sul sito internet del Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

La Commissione provvede al costante aggiornamento dell’elenco stesso.

 

4.La Commissione dura in carica tre anni. Alla scadenza di tale termine,la Commissione cessa dalle proprie funzioni.

 

5. Il Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri provvede all’istituzione e al funzionamento della Commissione di cui al presente articolo avvalendosi delle risorse umane, strumentali e finanziarie di cui dispone. Ai componenti della Commissione non è corrisposto alcun compenso, emolumento, indennità o rimborso di spese.

 

 

Art. 2.
(Commissione per la valutazione dell’equità retributiva del lavoro giornalistico).

1. È istituita presso il Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri, la Commissione per la valutazione dell’equità retributiva del lavoro giornalistico, di seguito denominata «Commissione». La Commissione è composta da quattro membri, di cui:   
a)
    uno designato dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, con funzioni di presidente;
b)
    uno designato dal Ministro dello sviluppo economico;
c)
    uno designato dal Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti;
d)
    uno designato dalla Federazione nazionale stampa italiana (FNSI)

2. Entro tre mesi dal suo insediamento la Commissione definisce i requisiti minimi di equità retributiva dei giornalisti iscritti all’albo titolari di rapporto di lavoro non subordinato nei quotidiani, nei periodici, anche telematici, nelle agenzie di stampa e nelle emittenti radiotelevisive, in coerenza con i corrispondenti trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria in favore dei giornalisti titolari di un rapporto di lavoro subordinato. I requisiti minimi sono stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge.   
3. La Commissione, valutate le politiche retributive dei quotidiani, dei periodici, anche telematici, delle agenzie di stampa e delle emittenti radiotelevisive, redige un elenco dei datori di lavoro giornalistico che garantiscono il rispetto dei requisiti minimi stabiliti ai sensi del comma 2, dandone adeguata pubblicità sui maggiori mezzi di comunicazione e sul sito
   internet del Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri. La Commissione garantisce il costante aggiornamento dell’elenco di cui al presente comma.
4. Il Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri provvede all’istituzione ed al funzionamento della Commissione di cui al presente articolo avvalendosi delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente. Ai componenti della Commissione non è corrisposto alcun compenso, emolumento, indennità o rimborso spese.
  

 

Qui le differenze si fanno più sostanziali:

Innanzitutto la commissione è ampliata, rispetto al primo testo, di un rappresentante degli editori e di uno dell’Inpgi: una cosa che ci può anche stare, sebbene sappiamo tutti che in un primo tempo la Fieg aveva dichiarato in maniera esplicita che non aveva interesse a far parte dell’organismo. Evidentemente gli editori hanno cambiato idea (o vogliono solo allungare i tempi).

Poi, c’è un particolare che mi stimola troppe riflessioni: nel testo Moffa alla commissione non viene posta una scadenza, quindi si presuppone che essa sia, opportunamente modificata nel tempo, permanente (come è giusto che sia). Invece il nuovo testo dà una scadenza precisa alla commissione (tre anni) e si specifica in maniera chiara (anche troppo) che essa “cessa dalle proprie funzioni” dopo questo triennio, ma non si dice che essa verrà sostituita da qualcos’altro. L’equo compenso dunque varrà solo tre anni? Possibile?

 

Art. 3

(Accesso ai contributi in favore dell’editoria)

    1. Al decorrere dal 1° Gennaio 2013 la mancata iscrizione nell’elenco di cui all’articolo 2 per un periodo superiore ad un anno comporta la decadenza dal contributo pubblico in favore dell’editoria, nonché da eventuali altri benefici pubblici, fino alla successiva iscrizione.

 

2. Il patto contenente condizioni contrattuali in violazione del compenso equo è nullo.

 

 

Art. 3.
(Accesso ai contributi all’editoria).

1. A decorrere dal 1° gennaio 2012 l’iscrizione nell’elenco di cui all’articolo 2, comma 3, è requisito necessario per l’accesso a qualsiasi contributo pubblico in favore dell’editoria.  

 

Qui si pone invece un principio importante. L’aggiunta del comma 2 è fondamentale per tutti i precari: non si potrà invocare l’accordo tra le parti per giustificare un compenso che non sia equo. La legge in questo caso è vincolante ed è un presidio essenziale per tutti.

 

L’articolo 4 è tutto nuovo, anche se non contiene particolari disposizioni:

 

Art. 4

(Relazione annua)

    1. Il Presidente del Consiglio dei ministri trasmette ogni anno una relazione alle Camere sull’attuazione della presente legge.

 

L’articolo 5 del nuovo testo è la copia dell’articolo 4 del vecchio testo:

 

Art. 5

(Clausola di invarianza finanziaria)

  1. Dall’attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

 

Art. 4.
(Clausola di invarianza finanziaria).

1. Dall’attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.  

 

Sostanzialmente, a parte il problema della durata della commissione, il testo che esce dal Senato è soddisfacente. Ora però è bene accelerare i tempi: la settimana prossima deve essere licenziata da Palazzo Madama, poi si avranno circa otto settimane utili per l’approvazione definitiva. Ci riusciranno i nostri parlamentari? Pare che i deputati siano più ben disposti rispetto ai senatori, ma meglio non essere troppo sicuri. Ci facciamo guidare dalla saggezza di Trapattoni: “Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco”.

7 commenti

  • Non vorrei sbagliare ma le novità non mancano. La prima: si fa riferimento ad un Albo. L’Ordine dei Giornalisti precede un diverso numero di Albi (professionisti, praticanti, pubblicisti…). E poi si riferisce ai Giornalisti, ricordo che il decreto di agosto stabilisce che tale titolo spetta a chi ha superato l’esame di Stato. Mi chiedo se non sia giusto affrontare il problema dei pubblicisti, sanandone la posizione? Oppure verificare la posizione degli iscritti, eliminando quelli che non dimostrano (guadagno e posizione Inpgi) di meritare q

  • Che pasticcio! Quanti refusi! Mi scuso, ma il post è partito, per una mossa sbagliata, senza darmi il tempo di rileggerlo!……

  • la melina, sistema ineguagliabile per far passare il tempo. nello specifico, lo chiamerei la presa per la melina…

  • Il pranzo è servito: “piatto unico”, a base di salse smielate che fanno a cazzotti con la legge dello Stato e la logica di qualsiasi mente capace di ragionare. Onore all’on.le Moffa e agli altri parlamentari che hanno sostenuto l’iniziativa legislativa, giusta e necessaria per rendere giustizia a chi lavora come giornalista “free lance”, ma dal Senato è uscito un piatto destinato a rendere non solo insapore ma anche amaro per chi l’assaggia. Un “caciucco” senza pesce. 
C’è un solo uomo che può intervenire per far sentire la sua voce di grande professionista, preparato ed esperto, ma anche di equilibrato “padre di famiglia”: il presidente nazionale dell’Ordine, il caro e ottimo Enzo Jacopino. La sua voce autorevole può richiamare parlamentari, sindacalisti e opinione pubblica sulla circostanza, ormai improrogabile, di mettere mano a una nuova legge sull’Ordine dei Giornalista, adeguata ai tempi prima ancora che alle leggi nazionali ed europee. La legge sull’”Equo compenso”, infatti, se riuscirà a tappare il buco del giusto riconoscimento a chi lavora, potrebbe anche aprire grandi falle. Per le nozioni che ricordo di “Diritto costituzionale” c’è il rischio di annullamento da parte della Corte Costituzione perchè ripetitiva di una norma della Costituzione che stabilisce il giusto compenso per chi lavora, ma anche perchè mette sullo stesso piano chi è “giornalista” avendo superato l’esame di Stato, come prevedono la legge sul riordino delle professioni dello scorso mese di agosto, la Costituzione (art.33) e le direttive europee, e chi è “giornalista”, anche se ufficialmente “dopolavorista”, avendo ottenuto il tesserino (colore della copertina, da qualche anno uguale a quella dei “professionisti”), producendo idonea documentazione riguardante gli ultimi due anni. Roba del secolo scorso!
La legge sull’equo compenso a chi si riferisce? A quelli che hanno fatto il praticantato e l’esame di stato? Anche ai colleghi che hanno scritto, ufficialmente come secondo lavoro” su giornali per un periodo di tempo? 
E ancora: la legge in vigore sull’Ordine dei Giornalisti, è ancora valida malgrado la legge sul riordino delle professioni che mette i paletti sulla definizione di “professionista” e che non contempla professionalità diverse? Bisogna evitare di colpire i colleghi pubblicisti, molti dei quali validi e valenti tanti quanto i professionisti. È necessario, invece, attivare il processo di parificazione. A mio avviso, la verifica dell’”elenco dei Pubblicisti” per accertare quanti di loro svolgono la professione, vale a dire possono dichiarare un guadagno certo, può consentire di assottigliarne le file e quindi agevolarne l’accorpamento e l’unificazione. Oppure, come mi è sembrato di capire, in senso all’Ordine ci sono quello che puntano a creare uno zoccolo duro per mantenere posizioni, forse di potere? Giornalisti sono tutti uguali, a prescindere dal tesserino, se lavorano onestamente e con sacrificio. Via ogni sbarramento all’accesso alla professione. Via ogni ingiustizia retributiva. Via alle possibili posizioni di potere. Porte aperte alla trasparenza. Presidente Jacopino, tu che sei un valente giornalista e un uomo che ha un grande cuore, intervieni per una radicale riforma della legge sull’Ordine che tenga conto della realtà.

  • Francesco Blasi

    Ecco perché, Salvatore, sono condivisibili anche i dubbi di Stefano (espressi qui e nel suo sito): l’equo compenso è una riforma che parte per la tangente di un problema grosso quanto un bisonte che è la non attuazione di una parte del Contratto della categoria e della stessa Legge sulla Stampa vecchia di mezzo secolo.
    Di chi stiamo parlando? Dei professionisti e non dei pubblicisti? Di entrambi? E individuati con quale sistema: l’iscrizione – per quanto a titolo e dopo percorsi diversi- all’Ordine, o in quanto lavoratori in regime di continuità e subordinazione in una azienda editoriale?
    Si andrebbe a “sanare” (vedremo poi come come e quanto, tradotto in moneta corrente, intendo) una serie di reati perpetrati nei decenni dagli editori, che non hanno assunto tutti quelli che hanno scritto e scrivono i loro giornali. Secondo una concezione già vecchia prima dell’era telematica, ma oggi consegnata alla preistoria, hanno assunto soltanto coloro che lavoravano fisicamente in redazione. Come dire, ti pago e ti garantisco con i crismi del Contratto perché ti posso controllare.
    Gli altri non erano e non sono controllabili, dunque, e non hanno diritto alle garanzie e alla remunerazione tipica di un giornalista. Peccato, però (e l’ironia è piena) che il risultato del lavoro di chi opera fuori dalle redazioni si vede ed è accessibile a tutti, tanto che molte vertenze riguardanti finti “collaboratori” sono finite con la condanna all’assunzione e il rimborso delle differenze retributive maturate.
    Cosa c’entra l’equo compenso? Niente, se la legge c’è già ed è stata calpestata con reati che un’altra legge in riforma dovrebbe semmai rafforzare nei controlli e nelle sanzioni.
    E i “collaboratori”, che fine farebbero? Quelli tra loro che lavorano in regime di continuità e subordinazione dovranno essere assunti. Se i giornali che oggi esibiscono foliazioni principesche con copertura totale del territorio, fin nei meandri della provincia, non ce la faranno a sostenere il carico della nuove assunzioni, dovranno purtroppo chiudere qualche pagina che non possono più pagarsi. D’altronde, se hanno finora coperto capillarmente il territorio, l’hanno fatto contro la legge sull’avvio alla professione e contro ogni regola di mercato e secondo l’italico costume per cui “è bello godere col sedere altrui”.
    Se qualche collaboratore vorrà rimanere, a costoro andrebbe applicato l’equo compenso. Ma soltanto se si tratta di hobbista che campa già di un lavoro regolare. Cui non sarà richiesta l’iscrizione all’Ordine, che dovrebbe tenere soltanto l’elenco dei Professionisti in virtù di una legge di reale riforma dell’accesso alla professione: dove cioè sono contemplati, come negli altri ordini, soltanto coloro che praticano per professione.
    Si obietterà che c’è una “crisi” dell’editoria in atto, dentro o accanto alla “rivoluzione della rete e dei social network”. Come ho detto altrove, si tratta di un’altra cosa, non foss’altro perché i veri organi di informazione producono notizie o comunque materiale originale, solo secondariamente commenti e scritti di vario genere, compreso il giornalismo della fuffa e i fondi spesso stucchevoli di marziani strapagati che imperversano sulle prime pagine dei nostri “grandi” quotidiani. Roba che lasceremmo al mondo dei blog, bloggers, web content-ers e altre amenità che poco ci riguardano.
    C’è soprattutto, in Italia, la stampa locale e regionale, fatta di gente che ancora oggi deve consumare le scarpe e la scheda telefonica per produrre materiale di prima mano. E’ questa la categoria da tutelare.

  • GiusyB

    Sottoscrivo l’appello del collega Salvatore Spoto, perché, nonostante le rassicurazioni ricevute dall’Ordine, la possibilità che la legge 69/63 contrasti con le norme europee (ma anche con la nostra Costituzione), nella parte che riguarda i pubblicisti, esiste davvero. E poi i pubblicisti sono sempre meno “dopolavoristi” e sempre più giornalisti che svolgono la professione in via esclusiva, ricavandone prevalentemente o totalmente il proprio reddito, a dispetto di ciò che è stabilito dall’ art.1. Colmare il vuoto giuridico è urgentissimo: servirebbe a prevenire il più che probabile intervento della Corte Costituzionale, a chiarire la posizione di giornalisti attivi e inattivi, soprattutto di quelli iscritti all’INPGI. Tempo fa si era parlato di un elenco dei pubblicisti ad esaurimento: oggi sarebbe giusto che vi fosse la parificazione. Ciò non servirà a mutare la situazione occupazionale (forse inciderà solo sulle condizioni di “potere” di alcuni giornalisti rispetto agli altri), ma rimetterà ordine all’interno della categoria, innescherà un processo virtuoso di professionalizzazione, di gran lunga più utile e costruttivo della formazione obbligatoria (che sotto alcuni aspetti potrebbe rivelarsi soltanto uno sperpero di risorse e di tempo – per i giornalisti più preparati e/o aggiornati -, nonché un costo insostenibile o insopportabile per tutti). Una riforma insomma è necessaria per istituire un esame d’abilitazione obbligatorio; per consentire, a coloro che esercitano la professione in via esclusiva, di potersi dichiarare professionisti; per lasciare ad articolisti, opinionisti, esperti di vari settori, tanto il diritto di pubblicare quanto il dovere di sottostare alle regole deontologiche; per non creare danni o situazioni conflittuali sul piano del trattamento pensionistico a quei giornalisti che, non essendo ancora abilitati, né titolari di contratti, stanno comunque maturando una pensione lavorativa – grazie alla loro iscrizione alla gestione separata – e che, sebbene sia ormai stabilito che non perderanno il loro status di giornalisti pubblicisti (?), potrebbero ritrovarsi in una condizione davvero ambigua e contraddittoria.
    In questo momento, i giornalisti non sono tutti uguali: per renderli tali occorre eliminare i limiti d’accesso alla *professionalizzazione*, prima che d’ingresso nell’albo. Perché – lo dico con franchezza, a costo di apparire superba – da pubblicista e autonoma che lavora onestamente, poco, ma dignitosamente (poiché accetto soltanto il lavoro che mi viene retribuito, per non diventare complice, mio malgrado, della progressiva “precarizzazione” della categoria), non mi va giù il fatto di essere assimilata ai pubblicisti dell’ultimo minuto: impreparati, inconsapevoli, che si sono “comprati” il tesserino fatturando il falso, arroganti o vanitosi che scrivono per la gloria e che gli editori ricompensano con la sola moneta che costoro cercano: la visibilità. Non voglio nemmeno essere tacciata d’ignoranza e d’ingenuità:come avviene con tanti aspiranti giornalisti ai quali gli editori vendono il miraggio della “gavetta” gratuita, per “migliorare il curriculum” e “prendere il patentino”. Ma, al di là dell’orgoglio personale, credo che sia giusto lasciare all’esame di stato il diritto di stabilire chi è un giornalista e chi no e alla gente comune di scrivere lo stesso. Credo inoltre che sia ancora più giusto e doveroso espropriare gli editori del loro potere di scelta del destino altrui: di chi vuole acquisire le competenze giornalistiche, facendo in modo che il diritto alla formazione, alla professionalizzazione, non sia più subordinato ai dettami economici e reddituali o vincolate da un contratto: riconoscere le professionalità, le competenze, i corsi universitari; istituire le facoltà di giornalismo (dove anche i meno abbienti possono accedere in base al reddito) oppure creare delle alternative (meno costose) ai master e alle scuole attualmente riconosciute, potrebbe consentire a molti aspiranti professionisti di accedere all’esame d’abilitazione nella prospettiva di creare un unico elenco o di mettere l’Italia in linea con le disposizioni di legge in materia di professioni regolate da un ordine. Tanto, lo ribadisco: un travaso da un elenco all’altro non muta la situazione occupazionale ma distingue i giornalisti dagli altri “tesserati” che spesso, nella sostanza, giornalisti non sono. D’altra parte, l’appartenenza all’elenco dei pubblicisti viene considerata come una “diminutio” anche da quei professionisti che, essendo disoccupati, sono spesso costretti a cambiare mestiere, diventando dei “dopolavoristi” a loro volta. Spero quindi che non siano più le condizioni economiche e reddituali personali a stabilire chi possa accedere o no all’esame; chi possa iscriversi in un elenco piuttosto che in un altro; chi resta “fuori” e chi resta “dentro” l’Ordine. E questo perché la disoccupazione tra i giornalisti “professionali” sta aumentando; perché nell’elenco dei pubblicisti finiscono sempre più aspiranti professionisti che non guadagnano abbastanza per ottenere il riconoscimento del praticantato d’ufficio o come free lance (mentre la situazione previdenziale è sempre gestita dall’INPGI, anche quando l’attività autonoma è scarsa); perché le testate che non hanno i requisiti economici per assumere dei praticanti, oppure quelle che non vogliono farlo, ripiegano sugli aspiranti pubblicisti, sugli stagisti universitari (che non pagano), ed hanno sempre prosperato grazie all’abbondanza di pubblicisti che possono lavorare a compensi rasenti lo zero. Nulla potrà vietare che molti svolgano il lavoro giornalistico volontariamente ma, così com’è sacrosanto obbligare tali persone a formarsi, sarebbe giusto avere delle norme che non limitino l’accesso alla formazione e al professionismo e che favoriscano l’occupazione e il ricollocamento al lavoro dei giornalisti di fatto, per evitare che quest’ultimi siano facilmente rimpiazzati dai volontari.
    L’equo compenso e la Carta di Firenze vanno in questa direzione ma non bastano per riorganizzare il settore e le regole d’accesso: dovrebbero essere introdotte delle misure contro l’abusivismo e lo sfruttamento del lavoro (la Carta di Firenze andrebbe rafforzata attraverso sanzioni più efficaci) e fondi di solidarietà o forme di finanziamento/investimento oppure incentivi che promuovano la piccola imprenditoria giornalistica, per far sì che le imprese giornalistiche crescano, che il diritto al pluralismo venga salvaguardato, che gli editori che non percepiscono i fondi per l’editoria non abbiano più scuse per non pagare i giornalisti, dato che la Carta di Firenze e le sanzioni derivanti dalla mancata applicazione delle norme sull’equo compenso, almeno per il momento, mi sembra di capire, non li toccano nemmeno. Chiudere il “giornalistificio” non serve a noi giornalisti per trovare maggiori opportunità di lavoro o per “stare più larghi” nell’albo: serve a non alimentare il precariato e ad impedire la strumentalizzazione e lo sfruttamento (dei sogni e della dignità) delle persone da parte di un settore lavorativo che gioca al ribasso, alla faccia della qualità, del diritto all’informazione, della dignità dei giornalisti.
    …sono fiduciosa perché Jacopino conosce la situazione e saprà farsi valere nel confronto con i legislatori.

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