Il citizen journalism è importante, ma non è giornalismo!
I cittadini ci spronano a rendere un servizio migliore. Con ciò non voglio però dire che tutti i cittadini possono diventare giornalisti da un giorno all’altro. Questo non perché ci sia conflitto tra giornalisti e cittadini, ma perché c’è distanza: la differenza sta nella qualità della notizia, nel suo approfondimento, nell’assunzione delle responsabilità. Nel caso del citizen journalism a me lettore chi dà la certezza, la fondatezza della notizia? Chi c’è dietro quell’articolo, che competenze ha, può essere sanzionato? Ci sono regole che tutelano i lettori? No, direi proprio di no. Spesso, un articolo di denuncia scritto da un cittadino comune rimane in superficie, non va a fondo; questo anche perché il cittadino non ha armi che invece il giornalista può avere; al cittadino rimangono chiuse porte che invece il giornalista può aprire. In più (e forse questo l’hanno dimenticato un po’ tutti) il giornalista ha una funzione educativa; il giornalista formato nel giusto modo ha una funzione nella società, non dimentichiamolo e, soprattutto, chiamiamo le cose con il loro nome.
Così, l’8 ottobre 2010 rispondevo alla domanda di una collega in merito al citizen journalism, nel corso di un intervista a margine dell’Ascoli 2.0, una manifestazione alla quale ero stato chiamato a portare la mia esperienza di giornalista esperto di comunicazione istituzionale: sono parole che sottoscrivo ancora, in un momento in cui il contrasto tra giornalismo “ufficiale” e citizen journalist (che, si è capito, per me non è giornalismo nel senso più pieno del termine) è arrivato a livelli molto alti, dopo due avvenimenti degli ultimi giorni: il caso della denuncia per “esercizio abusivo della professione” da parte dell’Ordine dei Giornalisti del Friuli Venezia Giulia contro il contenitore di filmati Pnbox e il bando di Repubblica.it per il reclutamento di videomaker per il sito del giornale (a prezzi da fame, tra l’altro).
Il problema di fondo di queste vicende è che non è ancora chiaro cosa sia “giornalismo” e cosa non lo sia, un margine di incertezza nel quale molti, troppi, si sono infilati, rendendo la nostra professione la meno certa dal punto di vista normativo. Il fatto è che l’articolo 21 della Costituzione (benedetto!) garantisce a tutti la libertà di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi forma ed è a questo articolo che molti si rifanno quando l’Ordine dei Giornalisti tenta di tutelare la professionalità dei colleghi.
Ma chiariamoci: una cosa è la manifestazione del pensiero, un’altra la professione giornalistica.
Grazie al collega Gabriele Testi, che ne ha curato la ricerca e l’assemblaggio, posso riportare di seguito alcune pronunce recenti della magistratura che spiegano con precisione quando si ravvisa in un’attività la natura giornalistica e dunque scatta l’esercizio abusivo per coloro che si trovino, senza essere iscritti all’Ordine, a realizzare tale attività. È una lettura davvero interessante, che spazza il campo da facili assimilazioni che costituiscono l’humus nel quale troppi si impantanano per giustificarsi:
1) Costituisce attività giornalistica la prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione attraverso gli organi di informazione; è tale anche l’attività svolta dal grafico il quale, mediante l’espletamento di attività inerenti la progettazione e la realizzazione della pagina di giornale come la collocazione del singolo pezzo giornalistico e la scelta delle immagini e dei caratteri topografici con i quali lo stesso viene riportato sulla pagina, esprime – pur nell’eventuale presenza delle scelte e delle indicazioni degli autori degli articoli e del direttore – un personale contributo di pensiero e una valutazione sulla rilevanza della notizia, valutazione rapportata a un giudizio sulla idoneità del fatto ivi riferito a incidere sul convincimento del lettore, in ciò differenziandosi dall’attività del poligrafico il cui contributo si esaurisce nella mera trasposizione grafica della notizia da comunicare. (Cass. 5/3/2008 n. 5926, Pres. Sciarelli Est. Cuoco, in Lav. nella giur. 2008, 725, e in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Michele Caro, “Sulla qualificazione, come giornalistica o no, della prestazione del grafico impaginatore”, 559)
2) Poiché si può parlare, considerando l’evoluzione della tecnologia dei mezzi di informazione, di un’informazione visiva che si affianca a quella, più tradizionale, letteraria, svolge attività di lavoro giornalistico il grafico che imposta, accorcia, modifica, colloca il testo, per di più se, come nel caso di specie, il lavoratore in questione risulta essere stato iscritto nell’Albo dei Giornalisti da parte del proprio Consiglio dell’Ordine. (Trib. Milano 17/11/2007, Est. Martello, in D&L 2008, con nota di Stefano Chiusolo, “Il giornalista grafico”, 124)
3) Deve essere considerato di natura giornalistica l’attività diretta non solo alla raccolta, ma anche al commento e all’elaborazione delle notizie destinate a essere oggetto di comunicazione attraverso gli organi di informazione. (Trib. Milano 28/1/2007, Est. Sala, in D&L 2007, 457)
4) In assenza di una definizione da parte della legge o del C.c.n.l., l’attività giornalistica è da individuare nella prestazione di attività intellettuale volta alla raccolta, al commento e all’elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, traendone i caratteri, oltre che dalla contrattazione collettiva, dall’art. 2 della l. n. 69/1963, ove si parla dell’obbligo del giornalista al rispetto della fonte, congiuntamente al diritto di informazione e critica, sempre nel rispetto della verità sostanziale dei fatti. (Trib. Milano 23/1/2006 Est. Dott. Atanasio, in Lav. nella giur. 2006, 1030)
Si può essere d’accordo o meno con questi criteri, ma essi costituiscono giurisprudenza, quindi non eludibili da chicchessia. Non entro dunque nel merito della controversia giudiziaria (ci sono i magistrati per questo), ma è fondamentale non confondere i termini in causa quando si parla di giornalismo.
Tuttavia, è evidente che con le nuove tecnologie e con lo sviluppo del web 2.0 non è più solo appannaggio del giornalista la possibilità di documentare un fatto, ma questa realtà richiede, per ciò stesso, una maggiore presenza e consapevolezza dell’informazione di tipo giornalistico e non certo una dismissione sic et simpliciter del patrimonio professionale (e di conseguenza delle responsabilità deontologiche poste in capo ai giornalisti) dei colleghi. Ecco perché mi sono sembrate sacrosante le proteste di sindacato, Ordine, cdr e colleghi sulla vicenda relativa all’iniziativa di Repubblica.it.
Il giornalista può e, in certi casi, deve utilizzare il materiale proveniente da videomaker, certamente più liberi e più rapidi nel documentare un avvenimento, ma tale materiale va “mediato” con la professionalità, la capacità di approfondimento, il dovere della verifica (cui segue l’obbligo di rettifica in casi di errore), tutti strumenti che per un giornalista sono il bagaglio obbligatorio (e la riforma in corso d’opera finalmente afferma l’obbligatorietà della formazione continua anche per gli iscritti all’Ordine dei Giornalisti, una previsione di legge fondamentale per una categoria che purtroppo non ha avuto grandi occasioni – e grandi volontà – di formazione).
Pertanto, è fuorviante contrapporre il giornalismo al cosiddetto citizen journalism, innanzitutto perché sono due elementi profondamente diversi (l’uno riflette, verifica e informa, l’altro prevalentemente documenta); piuttosto l’uno può stimolare l’altro, in una specie di “concorrenza virtuosa” per la quale il videomaker viene invitato ad andare oltre la superficie delle cose e il giornalista viene sollecitato a considerare aspetti meno noti e meno “ufficiali” di un avvenimento.
Quindi, non si può creare un qualsiasi prodotto giornalistico (attenti alle parole: prodotto giornalistico) senza giornalisti, neppure appellandosi alla libertà di espressione del pensiero garantita dalla Costituzione. Impossibile improvvisarsi giornalisti. Impossibile farsi giornalisti “dopolavoristi”.
Cose che capitano solo con il nostro mestiere: quanti “avvocati” improvvisati esistono? A quanti “ingegneri” dopolavoristi si affiderebbe la costruzione di un ponte? Quale “medico” per hobby o passione riscuoterebbe la fiducia dei pazienti?
Sono paradossi, lo so, ma solo così si può comprendere il disagio di una categoria che viene troppo spesso accantonata da improvvisati del mestiere.
Commento interessante, ma che non manca di un po’ di ‘bias’ amico mio.
Il regolamento della professione giornalistica italiano è un caso raro nel panorama europeo (e americano), dove in sostanza non è necessario iscriversi a nessun ordine per praticare la professione di giornalista. Parliamo poi di un quadro normativo partorito cinquant’anni fa.
Il giornalista poi non è un chirurgo, né un ingegnere; nessuno muore schiacciato da un articolo poco argomentato, o perde un rene per via di un editoriale scritto male.
PS
Quest’anno il Pulitzer è andato ad una testata che in sostanza è un aggregatore di blog.
No Maurizio. La professione del giornalista è uguale a quella del chirurgo. Il pericolo di lasciare l’opinione pubblica in balia della disinformazione è molto sentito da giornalisti veramente consapevoli di che cosa sia questo mestiere.
Garantire obiettività, verità, rispetto dei fatti, approfondimento, un’accurata verifica di tutto ciò che si divulga, non contribuisce solamente a creare uno spartiacque qualitativo tra il giornalismo professionale e quello cittadino: è un qualcosa di molto difficile e delicato da ottenere che incide sulla conoscenza, sulle opinioni, sui comportamenti delle persone e soprattutto sulla libertà ed il diritto di formarsi un’opinione veritiera e completa, non condizionata da manipolazioni, inesattezze, parzialità ed incompletezza delle informazioni ricevute.
La professione giornalistica (questa sconosciuta ai più!) oggi, in Italia può essere polverizzata, screditata e rimpiazzata in meno di un secondo, Nemico dell’informazione, infatti, è lo stesso sistema: lobby ed editori con i loro opachi intrecci politici che minano quotidianamente il diritto ad informare e ad essere informati, ma anche un mercato del lavoro giornalistico che tende al ribasso che non soltanto nega il diritto al giornalista di compiere il lavoro ma che di fatto impedisce anche al lettore di far valere il proprio diritto di sapere quanto possa essere attendibile la notizia che riceve e quanta capacità abbia, chi lo informa, di sapergliela porgere.
Antonello dice una cosa fondamentale e condivisibile: giornalismo professionale e citizen Journalism devono diventare complementari e non alternativi e, soprattutto, si deve garantire a tutti il diritto di distinguere la differente natura.
La differenza tra i due tipi di giornalismo in fondo non è nella qualità (o almeno, non sempre lo è) ma nella formulazione, nella dimensione, nella natura. I due tipi di giornalismo seguono prerogative differenti che dovrebbero completarsi a vicenda, senza sostituirsi le une alle altre.
Il cattivo giornalismo è un danno sociale: attacca le opinioni, limita le libertà personali, democratiche, il diritto all’emancipazione del pensiero, alla crescita della consapevolezza, della conoscenza, della cultura personale e sociale, ecc ecc ecc: è per questo che chi lo pratica deve saperlo fare con la stessa abilità e consapevolezza di un chirurgo. Purtroppo. il pensiero comune ignora del tutto cosa sia la sostanza di questa professione: molti sono convinti, anche tra gli addetti ai lavori, che per fare il giornalista sia sufficiente saper scrivere. Ma scrivere è solo il processo finale di tutto un lavoro che è a monte e che i non giornalisti ignorano perché si ritrovano sotto gli occhi solo il risultato finale.
Non è da tutti infatti saper guardare dentro i fatti e i comportamenti pubblici o in tutto quel che accade e che è di rilevante interesse sociale: occorrono gli strumenti di un “chirurgo sociale” per poterlo fare.