Chi ha bruciato sul tempo tutti sulle dimissioni del Papa? Chi ha inviato un giornalista in loco
A margine della notizia epocale di oggi, quella delle dimissioni annunciate da papa Benedetto XVI, non riesco a non sottolineare una circostanza “giornalistica” che forse costituisce una “normalità” per realtà importanti da seguire come l’attività del Santo Padre: se la collega dell’Ansa, Giovanna Chirri, ha potuto raccontare prima di tutti quel che stava succedendo è stato dovuto non solo al fatto che fosse attenta e che avesse una buona conoscenza del latino, ma anche al fatto che lì c’era, era presente.
Un dato scontato? Mica tanto.
In un mondo, come quello giornalistico, in cui si va sempre più consolidando la tendenza delle testate a fare uso di fonti “secondarie”, come siti internet e citizen journalist di vario genere, per risparmiare sul costo dei collaboratori, di coloro cioè che “consumano le suole delle scarpe” (vecchia, trita ma quantomai efficace immagine) alla ricerca dei fatti e della loro verifica, si è dimostrato per l’ennesima volta che la scelta vincente nel mondo dell’informazione è quello di essere “fisicamente” presenti.
Non si può risparmiare sui giornalisti, su coloro cioè che “fanno” il prodotto giornalistico e ne garantiscono affidabilità, accuratezza e copertura. Eppure, sembra che la strategia degli editori vada proprio nella direzione opposta: proprio oggi la Rcs ha annunciato una serie di licenziamenti forse senza precedenti (800, molti dei quali giornalisti), sono poi note le vicissitudini di tutte le testate, senza poi contare che lì dove i quotidiani non licenziano, lasciano i collaboratori, che sono i pilastri dell’informazione che si produce, a guadagnare cifre vergognose. Non stupisce la resistenza degli editori di fronte alla legge sull’equo compenso né le manovre che si apprestano a realizzare per depotenziare l’impatto del provvedimento (e – per inciso – manca una sola settimana per la scadenza dei termini di legge per nominare la commissione che dovrà quantificare la congruità del compenso).
Nel giornalismo continua a vincere chi è presente, chi vede con i propri occhi o comunque verifica direttamente le fonti di informazione (altro insegnamento di oggi della collega Chirri: ascolta il discorso del Papa, traduce e comprende, ma prima di dare la notizia clamorosa attende un riscontro, una verifica, magari rischiando di essere bruciata sul tempo da qualcun altro): ma sarà ancora possibile farlo se la direzione impressa alla professione dagli editori sarà sempre più quella del contenimento dei costi del personale? La qualità, a lungo andare, premia sempre. Ma pare che di questi tempi non sia un atteggiamento vincente. Più facile tagliare e conseguire risultati immediati di risparmio.
Certamente negli eventi di una certa portata continuerà ad esserci la presenza dei colleghi che, come Giovanna Chirri, racconteranno con scrupolo ed attenzione la realtà che ci passa sotto gli occhi, ma a livello locale cosa accadrà?
“Lo scopriremo solo vivendo”? No, basta dare un’occhiata alla realtà di oggi delle testate locali.
…la realtà di questa cronista locale, senza dati o statistiche alla mano, è fatta della presenza fisica sul territorio e della vicinanza (spesso anche della conoscenza diretta) dei lettori, ma anche della limitatezza economica e dimensionale della testata: i giornali locali sono quelli che diffondono notizie che spesso vengono ignorate dai grandi media ma sono anche quelli che non hanno i mezzi sufficienti per inviare il giornalista sul luogo dell’evento, per affrontare i costi di un’inchiesta o per garantire, in caso di problemi, quel redattore (che è quasi sempre un collaboratore) che, mentre è lì a consumare le suole delle scarpe, s’imbatte in qualcosa d’inaspettato, di un fatto importante e sul quale non può indagare per colpa della mancanza di risorse. La cronaca locale, inoltre, raramente può concedersi il lusso di ricorrere a fonti di “seconda mano” (per ragioni evidenti) e perciò si trova ad arrancare tra la concorrenza (impari) dei grandi giornali ed il rischio di produrre un buco informativo (un disservizio che fa venir meno la stessa ragion d’essere di una testata), perché mancano i soldi o perché il processo di selezione delle notizie è condizionato a priori, da forme di auto-censura, indotte soprattutto dall’incapacità strutturale di affrontare temi di una certa difficoltà e delicatezza, e dalla superficialità (perché il tempo costa e tu hai fretta). Tutto ciò danneggia la qualità dell’informazione ma soprattutto i cittadini e le comunità che hanno il diritto di conoscere – attraverso le notizie – fatti che per loro sarebbero rilevanti.
L’editoria locale ha un grande vantaggio: l’esclusività e la specificità dei temi che tratta. Ma, in questa generale tendenza (o costrizione) al risparmio, questa possibilità non può essere sfruttata al meglio.
Le piccole testate corrono ai ripari e, qualche volta, riescono ad aprire o a diventare esse stesse delle agenzie di stampa. Ma, nel frattempo, i colossi dell’editoria investono sulle potenzialità dell’on line e sulle notizie geolocalizzate, danneggiando le imprese locali che, in questo modo, perdono inserzionisti e la loro principale fonte di guadagno (dato che i giornali locali, a meno che non appartengano ai grandi gruppi editoriali, rarissimamente ricevono i contributi all’editoria).
Tutto ciò, nel complesso, crea uno scenario che trovo agghiacciante: da un lato, ci sono i grandi gruppi editoriali che, ridimensionando i loro costi, incidono negativamente sulla qualità informativa, dall’altro c’è chi, pur avendo i vantaggi concreti dell’esclusività e della vicinanza al territorio, non può permettersi nemmeno di pagare il cronista che consuma le suole, affinché egli possa comprarsi un paio di scarpe nuove…
La concorrenza poi, essendo impari, non può essere “virtuosa”: in Italia non vedo una tendenza dei media a giocarsi la carta della credibilità sul terreno della qualità (e come potrebbero: coi cronisti pagati a pochi euro al pezzo?) ma sui piani della visibilità e della diffusione/distribuzione capillare sul territorio.
Un giornalista con pochi mezzi, se è molto fortunato, può anche riuscire a dare una notizia prima degli altri ma, se in pochi se ne accorgono (la leggono), agli occhi del pubblico conta di più il resoconto di “seconda mano” (comprato dall’editore per 3 euro, e copia-incollato su una grande testata da un collaboratore o praticante che non vede né il denaro né un motivo valido per verificare la correttezza delle notizie).
Non voglio essere catastrofista ma, secondo me, l’editoria italiana, già in agonia, si sta scavando la fossa da sola. A salvarla saremo noi giornalisti, con la qualità del nostro lavoro. Il grave problema – però – è che gli editori sono dei pessimi imprenditori, perché non si accorgono che, con questa loro tendenza al risparmio, al ridimensionamento, stanno danneggiando sé stessi.
Il giornaslita, per poter lavorare bene deve esser messo nelle condizioni economiche di svolgere il lavoro (fingiamo per un attimo che le condizioni morali e di diritto siano già state garantite e assodate…), anche perché sono proprio i lettori, per primi, a pretendere qualità dall’informazione.
Internet sta rivoluzionando il sistema dell’informazione e la struttura delle testate, è vero, ma credo che il ricorso massiccio a fonti meno qualificate e a figure professionali “para-giornalistiche” sia un falso problema: in questo momento il giornalismo si trova nel caos perché si sta ridefinendo più o meno come accadde 60 anni fa. A quei tempi, fuori dal fascismo e dalle guerre, nacque una riforma per disciplinare il settore sul piano ETICO. Oggi ne occorre una che normalizzi il caos sul piano PROFESSIONALE ed ECONOMICO: occorre capire chi sono i giornalisti e chi può fare il lavoro di chi e a quale titolo, perché la nostra categoria è talmente eterogenea (mi riferisco soprattutto ai pubblicisti) e “sregolata”, da rappresentare non una ricchezza ma una minaccia. Infatti, è proprio questa sua struttura a permettere il “gioco al ribasso” (su compensi e qualità del lavoro)degli editori: in mezzo ad un agglomerato di giornalisti, copywriter, bloggers, “pubblicisti col patentino”, pubblicisti-esperti di settore, pubblicisti-professionisti mancati (per colpa del reddito) e web content managers, sono proprio le professionalità e la qualità dell’informazione ad essere penalizzate. Un giornalista che si riduce a fare il copia-incollatore di agenzie perché guadagna 1,50 a pezzo, per un editore conviene meno di un web content manager che ne guadagna la metà, e ancor meno dell’autonomo che lavora “per la gloria”. Se poi quell’editore trovasse un giornalista che in quell’euro e cinquanta ci mettesse anche la sua competenza… sarebbe fortunato…D’altro canto, la categoria è divisa ed arroccata sui suoi privilegi ( i contrattualizzati) e vantaggi (i free-lance più ricchi che trattano gli altri autonomi come se fossero dei pidocchiosi, indegni) . Con la sua ostinazione nel voler identificare il professionismo con il parametro economico, questa nostra categoria ha creato le condizioni dell’abuso che subisce, e ha contribuito a formare quella CULTURA popolare che vede nel giornalista un ricco nulla facente: a gran parte dell’opinione pubblica, dopo tutto, i copia incollatori di notizie non verificate vanno benissimo se costano poco o niente. Ormai, quasi non ci si accorge più della differenza tra i primi e i giornalisti veri (che sanno ma non riescono a lavorare) e, di conseguenza, gli editori offrono quel che richiede il mercato, al minor prezzo (e costo) per loro praticabile. Gli editori fissano il prezzo e noi (stupidi giornalisti!) stiamo al gioco, auto-definendoci e stimandoci attraverso il parametro economico….
Io credo fermamente nell’utilità della riforma sull’equo-compenso e della Carta di Firenze (in qualità di freelance dal reddito sempre più incerto, sono grata anche per tutti gli sforzi dell’INPGI e dei risultati raggiunti) ma, ancora più saldamente, credo che lo sfruttamento dei giornalisti e l’impoverimento qualitativo dell’informazione si potranno combattere solo con una RIFORMA dell’Ordine che sia capace di riorganizzare l’albo, anche creando nuovi elenchi, affinché si possano definire tutte le professionalità giornalistiche attuali. Allo stesso modo, spero in riforme che impediscano agli editori di sostituire il lavoro giornalistico con ciò che non lo è. Perché la qualità dell’informazione è un diritto inviolabile delle persone. Ma allo stato attuale, qualunque giornalista non garantito è messo nella condizione di scendere a compromessi con gli editori: chi non vuole farlo, resta disoccupato (ed è pure giudicato colpevole di non possedere la partita I.V.A.); chi non ha altra scelta, invece, è costretto a lavorare sulla quantità (a discapito della qualità): deve ridurre all’osso il proprio potere “contrattuale” nella contesa con chi può svolgere lo stesso lavoro (sorvolo sul “come”…) accontentandosi della “gloria”.
Sto dicendo (mi ripeto) che, se i dopo-lavoristi vogliono il loro “patentino” di giornalista, occorre darglielo, purché non si continui a mettere tutti gli articolisti sullo stesso piano: alcuni scrittori – che inseguono le loro velleità e che confondo la LIBERTA’ D’ESPRESSIONE con il lavoro del FARE INFORMAZIONE – oggi vengono assimilati alla stessa categoria dei giornalisti; i professionisti (sotto-pagati o sotto-occupati) vengono pagati secondo le “visualizzazioni”, come se fossero dei publisher; i pubblicisti-esperti (giuristi, medici, scienziati…il cui apporto informativo è fondamentale) sono alla stregua dei “tesserati per caso”; i pubblicisti professionali, competenti (ma rimasti nel limbo dei “non-professionali”, perché non hanno potuto superare quel gap economico che avrebbe loro consentito l’accesso all’abilitazione e al riconoscimento del ruolo professionale)non hanno scampo, perché gli editori (ciechi) affidano il lavoro a chi costa meno (e se lo schiavo, che deve necessariamente sopravvivere d’altro, ha una preparazione vasta e una competenza giornalistica articolata, ancora meglio….). E, a quel punto,inevitabilmente, diventano inutili le nostre affermazioni di principio come: “la competenza e la qualità si pagano”, oppure: “escludiamo dall’ordine chi si trova al di sotto di un certo livello economico”, perché, se il lavoro del produrre informazione diventasse totalmente gratuito, ci saranno sempre più “non-giornalisti” disposti a svolgerlo. Noi giornalisti siamo incapaci di far valere e, allo stesso tempo, di “comunicare” le nostre competenze e la nostra specificità professionale: la riforma dovrebbe impedire che ciò accada perché, sebbene l’equo compenso porrà un freno allo sfruttamento, allo stato attuale, nulla impedisce agli editori di licenziare ( o non assumere affatto) i giornalisti, per rimpiazzarli con altre figure, dei “tutto-fare” che, col tempo, causeranno una progressiva perdita di specificità del lavoro giornalistico. Grazie soprattutto alle nuove forme di giornalismo e d’accesso che internet ha creato, sono nati dei “giornalisti per caso” (ne ho conosciuti tanti): giornalisti perché hanno la tessera e la considerano una specie di “diploma”, una qualifica in più, utile per dilettarsi con la scrittura, anche sui giornali, senza correre il rischio d’essere denunciati per esercizio abusivo della professione (per la gioia degli editori…). Loro, loro malgrado, stanno creando un danno che si ripercuoterà sulla qualità dell’informazione e che si sta ripercuotendo già sul piano dell’occupazione. Ma, nonostante tutto, nessuno, neanche l’ODG, riconosce la specificità di questi autori: li tutela (anche nella loro inconsapevolezza) soltanto in virtù della loro iscrizione all’albo ma non li definisce (se non sulla base di parametri economici e contrattuali che valgono certamente, per altri, ma non per loro) attraverso una loro specificità professionale. Il valore ETICO della riforma attuale (ma soprattutto la solidarietà della categoria) ancora fa sentire i suoi effetti positivi difendendo il diritto d’informare e di fornire un’informazione di qualità, anche attraverso l’obbligo della formazione permanente.
Tuttavia la morale è sempre la stessa: il lavoro del giornalista è insostituibile (anzi, occorre che torni ad esserlo, per il bene della società civile, per quel diritto di sapere, per il rispetto del diritto dell’opinione pubblica di essere informata e consapevole….) ma oggi, malgrado le vittorie sindacali e quelle ottenute sul campo della dignità, di fatto, non esiste alcuno strumento (se non il diritto del lavoro, fatto valere affollando le aule dei tribunali con le cause legali contro gli editori) che limiti il ricorso a figure professionali e a contratti diversi da quelli giornalistici.
Gli editori – come dicevo – sfruttano tutte le possibilità che hanno: 1) il nostro stato di bisogno (lasciando noi giornalisti a contenderci il lavoro con chi è disposto a farlo gratuitamente – perché può vivere d’altro – o ricattandoci attraverso un contratto camuffato); 2)il caos che regna all’interno degli iscritti all’albo, a causa di quei criteri di definizione del giornalista che sono ormai fuori dalla realtà, professionale (chi sarebbero gli autonomi, i freelance, i pubblicisti “vecchia maniera”, i professionisti mancati, i web-contributor col tesserino?) ed economica (che ne facciamo dei pubblicisti che guadagnano il giusto ma lavorano poco, di coloro che guadagnano 5 euro al pezzo, 10 euro “al chilo”: non sarebbe il caso di consentirgli almeno di accedere alla professionalizzazione – prescindendo dal parametro economico – per tutelarli nella dignità e dal ricatto degli editori?); 3) la competenza e l’obbligo della formazione continua, usata per “metterci una pezza”: quanto spenderemo per professionalizzare soprattutto quei pubblicisti dal “tesserino facile” e gli anziani prossimi alla pensione e poco abituati al giornalismo on line, sapendo che poi, da giornalisti professionalizzati, saranno accolti come schiavi – preparati e più a “buon mercato” di un professionista, oppure come collaboratori gratuiti – potendo accettare, da pubblicisti o da professionisti pensionati, condizioni di lavoro e contratti diversi da quello tipico, visto che, in teoria, potrebbero (ma non possono, perché non ce l’hanno oppure perché non lo trovano) vivere di un altro lavoro oppure contare su un reddito certo? E per quanto tempo, ancora, scuole e master impediranno, ai “giovani di tutte le età” (=precari dal futuro incerto: “handicappati sociali” in quanto privati del diritto di realizzarsi, di costruirsi una vita, una famiglia, e d’entrare così, a pieno titolo, nella cosiddetta “età adulta”) d’accedere alla formazione e, di conseguenza, all’esame d’abilitazione professionale, per via dei costi esorbitanti dei corsi?
Noi giornalisti non garantiti abbiamo trasformato il nostro peggiore nemico (il trattamento economico) nell’unico concetto valido per definirci in quanto giornalisti (altro che qualità!). Intanto – col mercato che ha annientato il nostro potere contrattuale e la discriminazione e l’insensatezza regnanti nei criteri d’accesso professionale – stiamo perdendo anche la nostra IDENTITA’ professionale. A scapito della qualità del nostro lavoro, a vantaggio degli editori e datori di lavoro (quelli che propongono contratti da “metalmeccanico “ o “help desk” o “amministrativo” al posto di quello giornalistico) che hanno a disposizione molta “manovalanza intellettuale” , a due soldi.
“Ma, se voglio, trovo qualcuno che faccia il tuo stesso lavoro a molto meno di te” : è una frase che gli editori ripetono continuamente. E noi? L’unica soluzione che la categoria ha trovato è stata quella di obbedire a questo ricatto: ripudiando coloro che vi cedono e, allo stesso tempo, negando, a chi lo rifiuta (restandosene a casa, disoccupato), qualunque diritto al proprio riconoscimento professionale: come si fa a parlare di “qualità” se la nostra professionalità di giornalisti viene continuamente negata (dagli editori e dalla nostra “guerra” interna tra ricchi e poveri)? Ridefinire le diverse figure giornalistiche – articolandole meglio -, le mansioni e la produzione informativa, da affidare in base al profilo professionale di ognuno, servirebbe (secondo il mio modesto parere) a normalizzare il caos, portando benefici sul piano della qualità dell’informazione. Concedere agli aspiranti professionisti il diritto di formarsi, a prescindere dal proprio reddito (perché il pubblicista che non guadagna quanto un praticante non può diventarlo d’ufficio e lo studente di un master di giornalismo può farlo perché, per “praticare”, paga lui stesso?), creerebbe un “eco-sistema giornalistico” nel quale la concorrenza (anche tra professionisti) si gioca sul piano qualitativo e non su quello economico degli editori (“che se non vuoi farlo tu, trovo un altro che lo fa al posto tuo per molto meno…”).
…magari, tra un secolo, dopo la riforma dell’ODG, tutto questo accadrà…
Forse è la prima volta che condivido tutto quello che dici 🙂