Non siamo soli, purtroppo… tra equi compensi e prestazioni gratuite
Avrei voluto riprendere il blog, trascurato ultimamente per diversi motivi contingenti, con qualche bella notizia o con il racconto delle ultime uscite gastronomiche fatte in questo periodo (che comunque troveranno spazio prossimamente su questi schermi), ma a saltarmi agli occhi sono tutte riflessioni non particolarmente allegre e per evitare un pianto greco continuo, le riunisco in un solo scritto.
Quello che mi ha convinto a scrivere qualcosa è la lettura di un breve articolo, uscito su “il manifesto” di questa mattina e riprodotto dal blog “La furia dei cervelli”, dal titolo quanto mai interessante: Lo stato del quinto stato.
Non si parla di giornalisti, non in modo diretto, ma ci sono tutti coloro che sono in nostra buona compagnia nell’inferno del precariato, nelle sue diverse forme: freelance, partite Iva (vere o false), consulenti, liberi professionisti.
Si cita uno studio dell’ACTA (Associazione Consulenti Terziario Avanzato) su come incida la crisi su queste categorie (tra le quali ci siamo anche noi giornalisti nelle varie articolazioni di precariato o lavoro libero professionale). I risultati sono facilmente sovrapponibili a quelli della nostra professione:
La domanda di servizi professionali è in calo
Come ci si attendeva, oltre la metà dei professionisti intervistati alla fine dello scorso anno segnala che la domanda relativa alla tipologia di servizi da loro offerti è in calo (per il 10% in forte calo), mentre solo il 17% registra un’espansione.La diminuzione della domanda dovuta ad acquisti di servizi eliminati o rinviati
Abbiamo cercato di capire a cosa attribuire il calo della domanda.
Le risposte indicano che la causa principale è una riduzione dell’acquisto dei servizi, dovuta all’eliminazione di alcune attività (causa segnalata come frequente dal 42,6 % dei rispondenti) o per effetto di un rinvio degli acquisti (40%), posticipati a tempi “migliori”. Più raramente i clienti provvedono a realizzare in casa i servizi precedentemente acquistati (23,5%). Una sostituzione non sempre possibile per mancanza delle necessarie competenze all’interno della loro struttura organizzativa.
Poi, finalmente la questione calda… il prezzo:
Con quali fattori si compete? Quanto conta il prezzo?
Gli intervistati ritengono che i principali fattori competitivi per operare sui propri mercati siano affidabilità, competenze e relazioni e al quarto posto la qualità.
In penultima posizione il prezzo, fattore competitivo considerato relativamente meno importante, pur in un contesto di prezzi in diminuzione: oltre i 2/3 degli intervistati (67,2%) è d’accordo con l’affermazione “le pressioni sui prezzi sono crescenti e la contrattazione è sempre più lunga e sfiancante”.
Una pressione a cui sono seguiti comportamenti diversi: il 54,6% dichiara di non accettare lavori sottopagati per tutelare la propria professionalità, mentre il 38,3% ha invece dovuto adattarsi, in gran parte nel timore di poter essere facilmente sostituito e quindi di perdere i clienti.
I commenti “aperti” aggiunti nella compilazione dell’intervista confermano una riduzione della domanda dovuta soprattutto ad una riduzione dei compensi, un’attenzione spasmodica ai costi che molto spesso va a scapito della qualità . Una quota minoritaria degli intervistati (13,6%) segnala finalmente un’ inversione di tendenza , un recupero di attenzione alla qualità, magari dopo che i clienti sono rimasti scottati da esperienze molto negative e in seguito ad una certa selezione del mercato, che a parere del 23,3% degli intervistati, ha escluso un po’ di improvvisati.
Infine, un’annotazione così diffusa nel giornalismo:
Il lavoro gratuito: una realtà con cui fare i conti
La richiesta di lavorare gratuitamente risulta sperimentata da oltre la metà degli intervistati: per il 37% di essi è una richiesta occasionale, per il 15,9% una richiesta frequente. Inoltre più dei ¾ degli intervistati ha ricevuto richieste di extra gratuiti (abituali per il 32%!). Questi comportamenti sono diffusi soprattutto tra enti pubblici e locali e tra Università e centri di ricerca e formazione.
Anche chi non accetta di lavorare gratis deve fare i conti con la concorrenza di lavoro gratuito, denunciata come frequente o molto frequente dal 17,3% dei rispondenti, e saltuaria da un altro 34%. Un fenomeno particolarmente presente nell’ambito di editoria, archeologia e architettura.
Altro tasto dolente sono i pagamenti.
Sono pressoché scomparsi gli anticipi , che il 76% degli intervistati dichiara di non ricevere mai, mentre il 18% li riceve raramente e solo il 6% con una certa regolarità.
Si confermano infine i ben noti problemi nella puntualità dei pagamenti, denunciati dal 45% dei rispondenti, e in particolare da chi ha come cliente principale la PA .
Insomma, non siamo soli, la crisi è generale, ma questo non ci fa gioire, perché i problemi ce li abbiamo tutti e il reddito non è mai abbastanza, come rivela la parte finale dell’indagine ACTA:
Emergenza redditi
Uno dei dati più negativi emersi dall’indagine attiene ai redditi. Il 22,6% dichiara di avere un reddito insufficiente a mantenersi e a sostenere le spese minime vitali (bollette, mutuo/affitto, cibo, mezzi di trasporto), e un altro 47,7% un reddito appena sufficiente rispetto a tali parametri.
Le maggiori difficoltà sono dichiarate da chi lavora nelle aree più creative come pubblicità, editoria e design, mentre molto migliore è la situazione di chi svolge attività più tecniche come ICT e attività ingegneristiche, ma anche per i consulenti di direzione e strategia.
Non emerge una significativa differenza di genere, mentre si confermano le maggiori difficoltà al Sud.
E’ molto importante l’apporto di altri redditi familiari (27% può contare in misura significativa sul reddito del o della partner, il 12,8% su quello della famiglia di origine), mentre molto più raro l’apporto significativo di altri redditi da lavoro o pensione (3,7%) e di rendite (3,7%).
Una riflessione ancor più pungente è stata quella postata su Facebook a commento dell’indagine dalla collega Francesca Rana, che merita di essere riportata letteralmente:
Da nata negli anni ’70, dico che un altro aspetto è da considerare. Che nelle statistiche non si può censire. A chi sta in queste condizioni, fanno venire continuamente sensi di colpa, come se chiedere stipendi o rispetto delle regole sia una pretesa non consentita in questa epoca, come è capitato in passato. Si tratta di una preoccupante retromarcia sul rispetto diffuso del diritto del lavoro e della dignità delle persone.
Ecco… questo è lo specchio di una generazione, anzi più di una generazione ormai “perduta”, visto che i provvedimenti di sostegno all’inserimento nel mondo del lavoro sono mirati ai giovani (quelli sotto i 30 anni) e non a noi ex giovani cui mai hanno permesso di diventare adulti (almeno nel reddito).
E dall’altro lato sentenze, probabilmente non scandalose dal punto di vista giuridico, ma abnormi dal punto di vista della necessaria collaborazione tra generazioni, ci restituiscono il senso di una professione giornalistica gerontocratica e del tutto “immeritocratica”: è dell’11 gennaio la sentenza del Tribunale del Lavoro di Milano che ribadisce che si può stare in redazione fino a 70 anni, basta una richiesta al proprio editore. Un provvedimento che ha fatto esultare molti, ma che mi ha fatto tornare in mente il mio “grido” al teatro Odeon di Firenze contro i pensionati Inpgi che percepiscono pensioni più che dignitose e continuano a collaborare con gli stessi quotidiani con cui hanno lavorato (o anche altri, non fa differenza), sottraendo spazi ai giovani.
Ecco… se la pensione può arrivare a 65 anni e arriva con un assegno sostanzioso (quello che noi giovani ed ex giovani non potremo vedere neppure con il binocolo), perché ostinarsi a rimanere altri cinque anni sulla poltrona? Non sarebbe meglio liberarla per fare spazio a qualcuno di più giovane? Così forte è l’egoismo generazionale?
L’articolo di Roberto Ciccarelli su “il manifesto” richiama la necessità di ritornare ai tariffari o almeno ad una indicazione che non faccia abbassare di troppo, fin quasi ad azzerare, i costi delle prestazioni professionali: giustissimo, ma non è questa la finalità dell’equo compenso giornalistico che il 18 gennaio entra definitivamente in vigore? Già, ma le prime perplessità (motivate) iniziano a serpeggiare.
La prima è nell’analisi, sempre lucida, del collega Stefano Tesi sul suo blog, che punta l’attenzione sulla commissione che dovrà stabilire l’entità dell’equo compenso: chi vi farà parte? I giornalisti saranno in minoranza, e già questo è un handicap. Gli altri componenti non giornalisti saranno all’altezza del compito assegnato? Ossia: saranno esperti della materia? Si renderanno conto di cosa significa stabilire la soglia minima per un giornalista? Domande che fatalmente sono destinate a rimanere inevase finquando la commissione non si sarà formata e riunita. Sappiamo che l’Ordine dei Giornalisti ha indicato per essa il presidente nazionale, Enzo Iacopino, e non poteva essere diversamente, essendo lui la figura che più di altri ha voluto fortemente l’equo compenso. Ma la sua caparbietà l’avrà vinta anche in commissione? Lo speriamo.
La seconda è contenuta in un’analisi di Antonio Carlo Sacco, riassunta sul sito di Franco Abruzzo: perplessità, in questo caso, in ordine alla nozione stessa di “equo compenso” (viste le “lenzuolate” di liberalizzazioni targate Bersani 2006-2007), alla composizione della commissione, all’applicabilità stessa delle sanzioni.
Staremo a vedere. Il 2013 non si annuncia roseo come negli auguri che ci siamo scambiati il 31 dicembre scorso.
Non so se troverò il tempo per scrivere un post ad hoc su questo argomento, ovviamente attualissimo. E se da un lato mi fa piacere leggere che anche Sacco condivide gran parte delle mie perplessità, dall’altro non mi pare questa una grande consolazione. Mi permetto però, come è mio costume di persona poco “allineata”, di provare a capovolgere i termini della questione: ma siamo proprio sicuri che la difficoltà degli autonomi di ogni specie derivi dalla carenza di domanda e non piuttosto da un eccesso di offerta? Voglio dire: il lavoro, i posti, i redditi, i soldi, etc non si creano per decreto o con la bacchetta magica. Se nella stessa via ci sono venti ristoranti, tutti vuoti, forse non è perhè la gente non va più a cena fuori, ma perchè i ristoranti sono troppi per essere sempre pieni. Lo so, nel nostro caso (e in molti altri) ciò deriva dal fatto che la libera professione diventa una seconda scelta in mancanza di posti fissi. Ma allora non è più saggio cambiare settore invece di fare i giornalisti per forza, sottopagati o non pagati (e quindi mantenuti da altri o automantenuti da altre attività che con ciò divengono, giocoforza, prevalenti rispetto alla professione)?
E ovviamente grazie per la citazione!
Ciao, S.
E’ antipatico autocitarsi, ma già qualche tempo fa avevo espresso i miei dubbi su una legge che ventilava di introdurre un “equo tariffario” in piena era di liberalizzazione tariffaria delle libere professioni.
Non rimarrebbe dunque che considerare l’Ec come un “equo stipendio” a tutti gli effetti.
Ma allora parliamo di contrattualizzazione; e se le cose stanno così, l’Ec è una misura del tutto inutile visto che il contratto di categoria esiste e andrebbe applicato ai precari, cioè a chi non ne ha finora beneficiato o, pur avendone beneficiato in passato, non risulta attualmente coperto da garanzie di tipo contrattuale.
E allora ancora, non si capisce come e perché si potrebbe applicare il contratto anche ai freelance per scelta.
L’Equo compenso va insomma letto come una surroga operata dalla politica per ovviare all’incapacità e all’inerzia del sindacato di categoria. E, come tale, presenta tutti i limiti di un intervento realizzato da soggetti che, per quanto armati di buona volontà, posseggono nozioni marginali o al più approssimative del settore destinatario dell’intervento.
Stefano,
sai bene che non divergo di una sola riga dai tuoi punti di vista. C’è però un problema di numeri, o misure o percentuali.
In altre parole, non sono affatto certo che il dimensionamento essenziale e ottimale del giornalismo italiano coincida esattamente con quanto prodotto soltanto da chi è retribuito e tutelato in proporzioni almeno decenti, mentre l’intera massa sottopagata rappresenta ciarpame inutile e disturbante.
In media, il 70 per cento dei quotidiani viene scritto da non-inquadrati di varia tipologia e frequenza di prestazioni.
Per usare la tua metafora, vedo ristoranti molto ben frequentati da clienti che giungono a stomaco vuoto e gran bisogno di mangiare per sopravvivere. Ma che al momento del conto tirano fuori le pistole e si allontanano indisturbati lasciando nel piattino pochi spiccioli di mancia. Quando va bene.
E fuori la polizia fa finta di non vedere.