Istantanee dalla “Zona Rossa” a L’Aquila
L’ultima volta che mi ero addentrato tra le viuzze del centro storico di una delle città che porto nel cuore per tanti motivi personali, L’Aquila, era il 31 marzo 2009, il giorno della scossa di terremoto che fu la più forte prima di quella della notte del 6 aprile. Ero reduce dall’assemblea dell’Ordine dei Giornalisti, nella sede di via Sassa, proprio dietro la cattedrale, ed ero con il mio caro amico Mariano, che mi aveva invita a pranzo a casa sua nel quartiere di San Pietro, uno dei più antichi della città.
Pranzammo attorno alle 14 e poi ci facemmo una passeggiata per il corso, quando ci sorprese, all’incrocio tra corso Federico e via San Bernardino, il terremoto. Lo spavento fu grande, anche se eravamo fuori, ma fu amplificato dalla marea umana che improvvisamente riempì le strade che un attimo prima erano vuote.
Tornammo a casa di Mariano e vedemmo che si era formata una lunga crepa sulla parete di fondo. In un attimo, decisi di riprendere lui, Roberta e Martina e riportarli sulla costa. Non avremmo più rivisto in piedi, né io né loro, quella casa.
Ieri mattina sono tornato nel quartiere di San Pietro. Per la prima volta la “Zona Rossa” si è aperta anche per me e insieme a me c’erano i colleghi dell’Ordine dei Giornalisti, del Sindacato Giornalisti Abruzzesi e della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, giunti a L’Aquila per un incontro sul ruolo dell’informazione nel racconto del terremoto.
Cercare di separare le impressioni personali da un racconto di quanto visto è difficile, anche perché sotto l’elmetto “d’ordinanza” che ci hanno fornito non batte solo il cuore di un giornalista (che alla fin fine dovrebbe essere “scafato” ad ogni tipo di situazione, dovendola raccontare per gli altri), ma anche di un uomo che a L’Aquila ha trascorso giorni (e notti) di gioia e di felicità.
La visita è iniziata a San Bernardino, dove già ero stato, in quanto fuori dalla “Zona Rossa” e, guidati dalla collega aquilana Marina Marinucci, tra le più attive nell’assistenza ai terremotati nei mesi difficili del post-sisma, ci siamo addentrati nei vicoli retrostanti palazzo Margherita, sede (del tutto inagibile) del Comune.
Prima tappa, proprio San Pietro. Credo che le immagini parlino più di ogni altra parola.
E questa è la via che porta a casa di Mariano: in una sola parola, non è stato mosso neppure un granello di polvere di quanto è caduto nella notte del 6 aprile 2009.
Addentrandosi per la “Zona Rossa” quel che colpisce è il silenzio: due anni fa, invece, il brulicare dei negozietti, il viavai degli studenti, che erano i principali abitanti delle case del centro storico, i panni stesi ad asciugare, le sedi di numerose associazioni culturali raccontavano di una città viva e palpitante, che aveva proprio nel suo cuore più antico la sua linfa che innervava tutto il tessuto urbano, sociale, umano.
Ancor di più faceva riflettere il racconto di Marina che riferiva delle difficoltà oggettive degli aquilani che, seppure sistemati più o meno adeguatamente per l’emergenza, si trovano a sperimentare l’assoluta mancanza dei punti di riferimento che costituivano la loro vita. In particolare, i piccoli imprenditori, i negozianti, i titolari di piccole attività, legate alla vita quotidiana di una città, si trovano ad avere case e negozi inagibili, su cui pagano tasse e mutui, senza una prospettiva concreta per il futuro semplicemente perché quali attività possono ripartire in una porzione consistente di una città praticamente morta e ferma ancora alla notte del 6 aprile 2009?
Non c’è neppure una legge ad hoc per la ricostruzione, come ci fu per il Friuli, per l’Irpinia, per le Marche e l’Umbria.
Ovviamente, non si può paragonare nessuno di quegli eventi sismici a quanto accaduto a L’Aquila: mai era successo, nella storia recente d’Italia, che un capoluogo di regione, e quindi centro anche direzionale per un intero territorio, venisse praticamente azzerato da un terremoto. Quindi sarebbe troppo facile fare riferimento a provvedimenti presi dai Governi nei precedenti eventi sismici: L’Aquila è veramente un caso a parte, per l’ampiezza della zona colpita, per la grande quantità di popolazione interessata, per l’importanza strategica della città.
La fase dell’emergenza è stata sicuramente gestita con capacità dalla Protezione Civile: l’obiettivo di non far mancare un tetto ad alcuno è stato centrato, tanto di cappello per rapidità ed incisività. Ma far ripartire L’Aquila è un altro paio di maniche.
Quali erano le risorse della città? L’università, in primo luogo, gli uffici in secondo luogo. Ebbene: come può un ragazzo che voglia continuare a studiare in uno dei migliori atenei del centro Italia (non ci sono dubbi su questo) se non ha una casa a disposizione e deve fare il pendolare perpetuo? Se ha come facoltà un capannone industriale dismesso? Se non ha una città da vivere (e L’Aquila di notte era una città universitaria brulicante… meravigliosi ricordi, non di studente ma di fruitore)? Facile pronosticare che quando scadranno i tre anni di sospensione delle tasse universitarie (che finora hanno trattenuto a L’Aquila una buona parte degli studenti, ma non – a puro titolo di esempio – i miei cari amici Mariano, Roberta e Martina, che pure amavano la città), ci sarà una fuga di massa… e allora di cosa vivrà L’Aquila?
Già prima del terremoto, l’esodo di uffici dall’interno verso la costa (Pescara, principalmente) aveva falcidiato la città. E ora?
Gli aquilani chiedono quando inizierà la ricostruzione. È una richiesta più che legittima, visto che tutto è fermo. Che nessuno dà una prospettiva.
Mesi fa chiedevo ad un professore aquilano come la città si fosse ricostruita nel 1703, quando un terremoto – pare più devastante di quello del 2009 – distrusse L’Aquila. La risposta fu lapidaria e in parte anche sconsolante: “Mica c’erano le Sovrintendenze? Fu abbattuto tutto quello che c’era da abbattere e fu ricostruito tutto”. Quando ho ricordato questa battuta, gli aquilani presenti sono insorti: per loro va ricostruito tutto lì dov’era, conservando tutto quello che è conservabile. Mi chiedo: è possibile tutto ciò senza far morire il tessuto sociale della città? Passi per le vestigia d’arte e di architettura (tra l’altro, delle potenze mondiali che promisero di “adottare” un monumento aquilano per la ricostruzione, solo Germania, Russia, Francia e Giappone hanno mantenuto o stanno mantenendo gli impegni… e va aggiunto, è quasi ironico ma è così, il Kazakhistan), ma il resto?
Il fatto è che non c’è ancora un provvedimento che dica quali sono gli edifici da conservare e quali quelli da abbattere: sembra incredibile, ma dopo due anni è ancora così!
Un viaggio di due ore che mi ha consegnato un’immagine della città che non avrei mai voluto vedere e che raramente si vede in tv. Nel pomeriggio di ieri abbiamo poi discusso sul ruolo dell’informazione e della stampa in questi due anni di post-terremoto. Mi sembra logico analizzare il convegno in un articolo a parte, che scriverò non appena posso.
Queste righe di testimonianza sono state scritte di getto, quasi per onorare L’Aquila e la sua splendida gente che non “s’incazza” senza motivo quando si vede espropriato il diritto a decidere sulla propria città e quando chiede semplicemente di ricominciare a ricostruire. Per tacere del problema delle macerie, perché la maggior parte della “Zona Rossa” è così come si vede in questa foto del cortile della Prefettura, immagine “rubata” in quanto sono entrato senza autorizzazione… così come per la scalinata appena qui sopra.
Dove saranno collocate le macerie? Domanda che non ha ancora alcuna risposta.
Al termine del giro, un veloce pasto al Nero Caffè, moderno locale da poco aperto proprio in corso Federico II, davanti ai portici, inagibili e irraggiungibili, è un segno di sollievo, ma non per lo stomaco, quanto piuttosto per la constatazione della ferma volontà degli aquilani di far rivivere la città, anche in questi duri anni. Perché ci vorranno anni, non credo meno di dieci, ma più probabilmente venti, per far tornare il cuore dell’Aquila a battere come prima!