“Il Re fuito”: la mia relazione alla delegazione di Chieti dell’Accademia Italiana della Cucina di ieri
Ieri sera ho avuto l’onore di essere relatore alla Conviviale della Delegazione di Chieti dell’Accademia Italiana della Cucina che si è riunita nella “Taverna Ducale” di Crecchio, a pochi passi da quel castello dove il 9 settembre 1943 si rifugiò re Vittorio Emanuele III in fuga dopo l’Armistizio con gli anglo-americani. La mia relazione è stata centrata sul pranzo che i duchi di Bovino, proprietari del castello, offrirono ai Reali e allo Stato Maggiore in fuga.
Questa è la registrazione del mio intervento, seguito dalla sua trascrizione:
Avete mai mangiato un piatto di spaghetti alle vongole… “fuìte”? O meglio, nel dialetto napoletano, “fujute”.
Se non si conosce il dialetto napoletano, trovare gli spaghetti alle vongole fujute nel menu di un ristorante potrebbe trarre in inganno. Fujute, infatti, significa fuggite, a indicare la totale assenza delle vongole.
Preparare una ricetta senza il suo ingrediente principale non è soltanto una moda dei social, ma anche un’esigenza che nella storia della tradizione culinaria italiana ha dato vita a una miriade di piatti cult.
Com’è possibile allora ricreare il gusto degli spaghetti alle vongole quando non si ha la possibilità di reperire gli adorati molluschi? La risposta è in una leggenda metropolitana molto affascinante.
Le origini degli spaghetti alle vongole fujute sono incerte, ma secondo la convinzione popolare fu il grande Eduardo De Filippo a inventarli nel 1947. Si narra che al termine di uno spettacolo teatrale, invece di cenare insieme ai fratelli Peppino e Titina come al solito, tornò direttamente a casa per via della forte stanchezza. Giunto a destinazione la fame iniziò a farsi sentire, ma sfortunatamente la dispensa era quasi del tutto vuota. Spaghetti, aglio, peperoncino e pomodorini bastarono per realizzare un piatto in cui il profumo di mare è soltanto un’illusione generata dall’uso esorbitante di prezzemolo, onnipresente nei classici primi a base di pesce.
Il giorno dopo Eduardo raccontò alla sorella di aver preparato gli spaghetti con le vongole, le quali però erano fujute, cioè scappate. Nonostante ciò, la bontà della pietanza era stata così entusiasmante da mettere in moto un passaparola che attraversò tutta la città.
Reale oppure no, questa storia diede origine a uno dei simboli della cucina povera napoletana, sempre in grado di valorizzare gli ingredienti semplici fino a trasformarli in veri capolavori.
Ma nella nostra conviviale di “fujuto”, ossia “fuito”, come dice il titolo della nostra serata, è il Re. Quale Re, immagino tutti lo abbiate capito, essendo noi a Crecchio, a pochi passi dal castello dei Duchi di Bovino, che il 9 settembre 1943 fu al centro di una delle vicende più controverse (e, per certi aspetti, più vergognose) della storia d’Italia.
Quella mattina drammatica, il duca e la duchessa che risiedevano nel castello si videro letteralmente piombare in casa il reali d’Italia, Vittorio Emanuele III ed Elena del Montenegro, il principe ereditario Umberto, ma senza la moglie Maria José, il Capo del Governo, Pietro Badoglio, e i vertici delle Forze Armate che nella notte successiva all’annuncio dell’Armistizio con gli angloamericani avevano di fretta e furia abbandonato Roma per non cadere in mano ai Tedeschi che già stavano stringendo la Capitale d’assedio. Questo non è il momento di parlare delle responsabilità storiche e politiche di una mossa che per alcuni ha significato garantire la continuità della legalità statale, per altri una abdicazione alla responsabilità di garantire la catena di comando di reggimenti e divisioni militari che superavano di gran lunga in numero i soldati tedeschi.
Il Re a quel punto era un Re… fuito e insieme con lui era fuito il Governo e pure tutti i vertici militari. Avevamo un’Italia che formalmente c’era ma che sostanzialmente non esisteva più. Come le vongole di Eduardo De Filippo.
In un angosciante viaggio che parte dalla periferia est della Capitale, all’imbocco della via Tiburtina Valeria, l’unica non ancora presidiata dai contingenti tedeschi (e per questo venne deciso di puntare verso Pescara), fino all’incrocio per Chieti, dove il corteo delle auto si divide (una parte si dirige verso il porto pescarese per organizzare il trasferimento navale verso Brindisi, gran parte dei militari salgono nel centro dell’antica Teate, il resto prende la via di Crecchio), dopo circa cinque ore, Vittorio Emanuele III e la regina Elena sono davanti al castello dei duchi di Bovino. Sono le 10.30 e i padroni di casa strabuzzano gli occhi nel vedere bussare alla loro porta i reali, mezzo Governo e i vertici militari. Come accogliere una così importante delegazione?
Al servizio dei duchi c’era lo chef Aquilino Beneduce, 60 anni, di cui 25 trascorsi a Napoli alle dipendenze del principe Giovanni Pignatelli della Leonessa di Monteroduni, cerimoniere di Vittorio Emanuele III, quindi ben conosciuto in Casa Savoia. Ha già cucinato per i reali di Spagna e di Portogallo, per il duca Amedeo d’Aosta, cugino del re, per Italo Balbo e Guglielmo Marconi. È dunque un fuoriclasse, ma ha poco tempo. Soprattutto per il Capo del Governo Badoglio che notoriamente non era un grande gourmet, ma era fissatissimo con gli orari: alle 8 tassativamente faceva colazione con caffellatte e due biscotti e a mezzogiorno preciso pretendeva di mettersi a tavola, dove si accontentava con facilità. Già alle 12.01 iniziava a sbuffare per l’orario, tanto che la scorta sapeva che se il maresciallo d’Italia era in viaggio, si doveva studiare un percorso che consentisse di trovare un ristorante per la via che potesse servire il pasto a mezzogiorno in punto. A dir la verità, in quella giornata Badoglio non si preoccupava molto degli orari e non si lamentò più di tanto.
Nonostante il poco preavviso e il poco tempo a disposizione lo chef Beneduce riesce non solo ad elaborare un pasto degno dei commensali ma addirittura personalmente verga a mano il menu, scritto in francese, che dunque ci è conservato:
Cosommé Sevigné (brodo ristretto di pollo, morbidelle di pollo, asparagi e lattuga);
Truite saumonée à la diplomatique (trota salmonata in salsa diplomatica e tartufi);
Poitrine de dinde aux primeurs (petto di tacchinella alle primizie);
Mousse de jambon de York à la gelée (spuma di prosciutto di York in gelatina);
Salade orientale (insalata all’orientale);
Haricots verts au beurre (fagiolini al burro);
Gâteaux délicieux (torta deliziosa), un dolce tipico napoletano per i compleanni con doppia crema e pasta di nocciole che nell’aspetto ricorda la nostra pizza doce;
Pailles japonaises (bastoncini di sedano-rapa impanati e fritti);
Salle de chèvre à la Maréchal Robert (sella di capra alla Maresciallo Robert), cioè realizzata in crosta di erbe e senape.
Il tutto in poco più di due ore. Alle 13.00 il pranzo venne servito, secondo il rango: Re, regina, il principe Umberto, i duchi di Bovino padroni di casa, Badoglio, il maggiore Pompeo Campello, ufficiale d’ordinanza del Capo del Governo nella sala principale e in una sala adiacente gli altri ufficiali.
L’elaborato menu del 9 settembre non deve trarre in inganno sulle abitudini alimentari di Vittorio Emanuele ed Elena: in realtà, i reali italiani non amavano molto i piaceri della tavola ed anche in questo i due consorti dimostravano di avere una forte intesa. Nonostante si sia molto riso sulla differenza palese di statura tra il re e la regina, chiamati spregiativamente “Curtatone” lui e “Montanara” lei (dai nomi di due epiche battaglie del Risorgimento che indicavano invece la bassa statura di Re Sciaboletta, chiamato così perché gli venne realizzata una sciabola appositamente più corta nelle parate militari per evitare che toccasse terra, e le origini montenegrine e ben poco nobili della regina, figlia di Nicola I, ex pastore di capre elevato al rango reale), Vittorio Emanuele III ed Elena erano una coppia ben affiatata, con molte cose in comune, legati da sincero affetto.
Al contrario del padre, Umberto I, e soprattutto della madre, la regina Margherita, amatissima dagli Italiani, che davano al Quirinale ricevimenti sfarzosi e balli continui, con menu di alta cucina, che replicavano anche in privato, la coppia reale mangiava poco e modestamente, tanto che il Re aveva anche abolito la tradizione di ricevere il Consiglio dei Ministri a tavola. Vittorio Emanuele III amava il pollo arrosto, che quasi mai mancava sulla tavola dei pranzi al Quirinale, dove i reali avevano dettato un preciso ordine di portate: una minestra di verdure, un piatto di pesce e uno di carne seguiti da un paté o da una mousse, per contorno insalata e qualche dolcetto. La sera addirittura il cuoco reale rimaneva spesso senza lavoro, visto che Elena si metteva ai fornelli per preparare qualche brodino o il tradizionale minestrone montenegrino (verdure miste, ma soprattutto l’okra, detta anche gombo, verdura di origine africana molto comune nella cucina balcanica, carne di vitello, panna acida, succo di limone). Durante la Prima Guerra Mondiale il Re, che andava spesso a far visita ai soldati nelle retrovie, amava condividere il rancio militare o, se in viaggio, si accontentava di pane e salame o di qualche frittata.
Il pranzo di quel 9 settembre 1943 non durò molto: alle ore 15.00, il corteo reale riparte dal castello per dirigersi verso Pescara. Praticamente, un pranzo da un’ora e mezzo. Mai i Duchi di Bovino avrebbero immaginato che qualche ora dopo il Re e la regina si sarebbero ripresentati a Crecchio, stanchi e preoccupati per l’impossibilità di organizzare in tempo la trasferta verso il sud dal capoluogo adriatico. Non c’è tempo di cenare, nessuno tocca cibo, se non la regina Elena che chiede qualcosa per sé, probabilmente gli avanzi del pranzo. Vengono preparate le stanze per consentire ai reali di riposare. Alle 23.00 la Fiat 2800 nera del Re è pronta sotto il castello per portare la famiglia reale ad Ortona, dove arriva alle 23.45. A mezzanotte in punto c’è l’imbarco sulla corvetta Baionetta, arrivata da Pescara, con direzione Brindisi.
Il re è davvero, irrimediabilmente fuito.