La tradizione culinaria abruzzese in un incontro di AC: quando “mistica” e “mastica” si fondono mirabilmente

Con gioia ieri sera ho avuto la possibilità di partecipare all’incontro finale del Cammino Formativo 2020-2021 del gruppo Adulti di Azione Cattolica della mia parrocchia sull’ultima parola che caratterizzava il percorso annuale, “mangiare”.

L’idea era quella di ripercorrere attraverso una cena in uno dei migliori agriturismi d’Abruzzo, che ha sede proprio a Miglianico, “L’antico gelso”, la tradizione culinaria abruzzese con un commento storico-gastronomico, che hanno voluto affidarmi. 

Questo è il testo del mio intervento:

Premessa – La cucina tradizionale abruzzese si riconosce da due caratteristiche: ingredienti “poveri” e ricetta semplice. Questo non significa che storicamente la nostra regione non abbia dato origine a piatti elaborati, specie quelli per le feste che adornavano le mense dei “signori” (basti pensare ad un’altra tradizione tutta abruzzese, quella della “panarda”), ma piuttosto che sono gli umili e i poveri ad aver regalato alla nostra cucina quei tratti che oggi vengono universalmente riconosciuti come “abruzzesi”. Tra l’altro, sia la cucina di mare, sia quella di terra presentano le medesime caratteristiche.

Le pietanze che abbiamo scelto in questo menu, grazie anche alle indicazioni della brigata di cucina, sono pienamente “abruzzesi”

Insalata di farro con rucola, pomodorini e scaglie di grana

La ‘nzalata nghe la livesa ruscia

La presenza storica del farro in Abruzzo, la cui zona di produzione comprende la fascia collinare media e la pedemontana di tutte e quattro le province, è sottolineata dal fatto che c’è in alcune zone della nostra regione un termine quasi “tecnico” per indicarlo, la livesa, che si distingue tra la livesa bianca e la livesa roscia ad indicare le due diverse tipologie di farro presenti in Abruzzo, ma che oggi si è ridotta sostanzialmente ad uno solo, la livesa roscia o Tridicum dicoccum. Il farro è un cereale che è particolarmente intonato all’Abruzzo poiché esso dà il meglio di sé come potenziale produttivo in ambienti difficili e marginali, come quelli presenti nella nostra regione. Quindi le insalate di farro sono una tradizione tipica abruzzese, che stasera però vedremo accompagnate solo dalla rucola nostrana, mentre pomodorini e grana naturalmente sono di tradizioni estranee a quella regionale.

Pallotte cace e ove

Le pallotte cace e ove rappresentano l’emblema di una cucina semplice, basata su ingredienti poveri: una ricetta in cui si fa addirittura a meno della carne, rimpiazzandola con pane raffermo e pecorino abruzzese, con solo un uovo a legare il composto. Esse nascono dalla necessità contadina di non gettare via nulla e sono, dunque, realizzate con ingredienti che difficilmente mancavano nella dispensa del contadino. Una leggenda vuole che esse siano progenitrici della carbonara, ricetta nata sui monti Abruzzesi, quando, durante la seconda guerra mondiale, gli americani – secondo alcune versioni – unirono il loro bacon al pecorino e alle uova per condire l’italianissima pasta. Naturalmente, è solo una suggestione che poco ha di vero.

Ribatti

Ribatte de Mijaneche, rivoteche d’Abruzze

Dove la caratteristica povera della cucina abruzzese si esalta è nei ribatti o ribatte o rivotiche: un piatto che mescola solo tre ingredienti base: acqua, farina, sale e la cui ricetta ha solo un’attenzione, quella di non formare grumi mentre si scioglie la farina. Un piatto che non ha alcuna difficoltà se non nel “rivoticare”, da cui il nome tipico in Abruzzo, la crêpe che si forma quando il composto scende nella padella antiaderente spennellata con l’olio, meglio se nuovo. L’accezione miglianichese, “ribatte” o “ribatti” è semplicemente un modo differente di indicare l’azione del rivoltare la frittella nella padella, poiché essa “batte” entrambi i lati sulla ferzora.

Bietola, fagiolini e patate con bastardone fritto

Bijete, fasciulette e patane

Se c’è una principessa, forse anche una regina, degli ortaggi in Abruzzo, ma in generale in tutta la cultura contadina, ecco, essa è la bieta o bietola: viene raccolta tutto l’anno, tranne proprio nei periodi più freddi, che da noi sono molto limitati, dà un grande senso di sazietà e quindi tiene a freno la fame e ha proprietà diuretiche. Poi per cucinarle basta metterne le coste in una pentola di acqua salata e bollirle. La cosa curiosa è che in Abruzzo in particolare vengono abbinati ai fagiolini, che sono sì dei legumi, ma hanno caratteristiche nutrizionali che si avvicinano molto di più agli ortaggi. Poi con l’arrivo dall’America delle patate, ecco che il piatto si completa, grazie alla facile reperibilità sul territorio del tubero. Sempre dall’America, ma che ha attecchito con grande facilità e subito diventato tipico della nostra zone è il peperone dolce, che conosciamo con i nomi di bastardone e farfullone. Di questo ingrediente abbiamo addirittura una traccia scritta da fonte autorevole: un atto notarile datato 1752 in cui si fa riferimento ad una compravendita in cui la pianta viene citata con il nome di “peparoli”. Nello stesso testo si racconta che nella vallata del Sangro i peperoni dolci essiccati venivano polverizzati all’interno di grossi mortai di legno denominati “piloni”. La polvere di peperone così trovava largo consumo come condimento per la pasta oppure per la preparazione di insaccati, un utilizzo rimasto in gran parte immutato. Il seme è lo stesso da più di 150 anni. Proviene da piante madri sane selezionate da quelle coltivate per lo più nella vallata del Sangro.

Melanzane ripiene

Li mulingnane aripiène

A noi sembra che la melanzana sia un prodotto assolutamente autoctono, tanta è l’abitudine a trovarla sulle nostre tavole; succede un po’ anche con pomodori, patate e peperoni, anche se sappiamo grazie ai libri di scuola che sono prodotti arrivati in Europa nel XVI secolo dalle Americhe. Ebbene, la melanzana non ha nulla né di italiano né di europeo, anche se si è diffusa da noi molto prima dei prodotti americani e una traccia della sua storia la troviamo proprio nel suo nome che è di origine araba. Furono infatti gli Arabi che invasero la Sicilia e il Sud Italia a partire dall’VIII secolo, che portarono la badanzana, questo il nome arabo della melanzana, che attecchì con particolare forza in Calabria, da dove vengono più o meno tutte le ricette tipiche con questa pianta, tra cui la versione ripiena che è tipica di Reggio Calabria.

Sagne e ceci con l’aglio fritto e peperone

Sagne e cice

Ci sarebbe da riempire un trattato sulle sagne e ceci. Diciamo innanzitutto che dobbiamo trattare i due ingredienti in maniera separata.

Le sagne sono un tipo di pasta nata nel centro Italia, tra la Ciociaria e la Marsica e quindi è riconosciuta come tipica da Abruzzo, Molise e Lazio. È caratterizzata dall’impasto a base di soli acqua, farina e sale, che ne denotano l’origine povera (era infatti la pasta “di tutti i giorni”, in contrapposizione della pasta all’uovo, propria dei giorni festivi). È talmente antico l’uso di questo tipo di preparazione che anche Cicerone in una delle sue lettere Ad Familiares accenna ad un piatto tipico di cui si dice ghiotto, che ci ricorda proprio le sagne, accompagnate dagli immancabili fagioli. A dimostrare che a Roma tale piatto non era certo dell’élite, c’è il fatto che il più famoso gastronomo latino, Apicio, non ne fa cenno nel suo De re coquinaria.

Il formato tipico delle sagne è rettangolare; in base alla destinazione d’uso o alla zona si presentano con varie forme e grandezze: piccole listarelle “sagne o tajarelle”, rombi più ampi “pettele o pettelozze” o piccoli quadrati “taccunelle”.

E sempre parlando di Cicerone arriviamo ai ceci: il segmento familiare della gens Tullia a cui apparteneva l’oratore ottenne questo cognomen, ossia quello che per noi è oggi il “soprannome”, dal fatto che un antenato aveva il naso a forma di cece. Questo ci dimostra come i ceci siano dalla notte dei tempi compagni delle nostre tavole. In Abruzzo dei documenti storici accertano la produzione di tale tipologia di legume nella zona di Navelli fin dall’Alto Medioevo e ci dicono anche che erano in uso tre varietà di ceci: bianchi, rossi e neri. La differenza sostanziale era nell’uso che se ne faceva: se il cece bianco era destinato al commercio, quelli rossi e quelli neri venivano consumati in famiglia. Il motivo? La resa. Alcune loro particolari caratteristiche li rendevano difficili da coltivare e, soprattutto, da cucinare, e quindi per gli agricoltori risultava più facile e redditizio coltivare altri tipi di legumi. Stavano dunque rischiando di scomparire, ma una nuova tendenza della coltivazione ha salvato questi due tipi di ceci che oggi rivivono una nuova gioventù, anche se prodotti sempre “di nicchia”.

Stracotto di pecora

Pecora alla callara

La pecora alla callara è un’antica ricetta tipica della tradizione abruzzese, che come denuncia chiaramente la sua natura, è tipica dei pastori che compivano ogni anno la transumanza: per questo, l’origine di questo piatto è circoscritta geograficamente nella fascia montana, in particolare nell’area marsicana, nella conca aquilana (dove si chiama pecora ajo cotturo) e nella zona dei Monti della Laga. Il piatto risalirebbe ad una necessità legata alla transumanza: quando, lungo il cammino dall’Abruzzo al Tavoliere delle Puglie, alcune pecore si azzoppavano o erano ferite gravemente o addirittura morivano per la fatica, i pastori le cuocevano in appositi paioli di rame, la nostra callara che nel dialetto aquilano è cotturo, sorretti da un treppiede e un gancio sopra il fuoco vivo di legna. La sua caratteristica di piatto povero e tipico della montagna si evince anche dal fatto che durante la cottura sono inserite diverse tra le erbe aromatiche e gli odori che i pastori avevano a disposizione ovvero timo, alloro, rosmarino, cipolla, aglio, carota, sedano, bacche di ginepro, pepe e peperoncino. Esiste anche una versione che prevede l’utilizzo di sugo al pomodoro, ma esso dovrà essere leggermente allungato con acqua e si addenserà intorno alla carne e alle erbe durante la cottura. In entrambi i casi la preparazione dura dalle quattro alle sei ore circa, poiché una lunga cottura consente di fare in modo che la carne della pecora, che è abbastanza dura, si ammorbidisca arrivando fin quasi a sciogliersi. La tradizione prescrive che il piatto venga consumato con i commensali riuniti intorno al fuoco, bagnando il pane (meglio se del giorno prima) nella pentola usata per la cottura.

Grigliata

Li tre tire a lu foche

Devo dire che per il nome da dare alla grigliata, che è un piatto universale della cucina italiana, abbiamo usato un termine improprio solo per poter spiegare che le carni che ci vengono presentate (maiale, vitello, agnello) costituiscono la base essenziale del ragù di macinato che in Abruzzo si realizza per le grandi feste: i “tre tiri” di cui si parla sono i tre gusti che si amalgamano nel sugo e che realizzano un condimento straordinario.

Pizza dolce

Pizza doce

La Pizza Dolce in Abruzzo è la torta per definizione che in passato era riservata ai matrimoni e alle grandi feste, nelle case poi era tipica per i compleanni dei bambini, ancora oggi non c’è festa importante che si concluda senza l’arrivo di questa sontuosa meraviglia. Come però capita ai piatti troppo diffusi, sono state realizzate numerosissime varianti, ma per riconoscere la vera pizza doce occorre tenere presenti questi pochi ingredienti: pan di spagna tagliato a dischi, bagnato con caffè e alchermes, crema all’uovo. Consentita la crema di cacao, ma assolutamente fuori tradizione la panna e la granella.

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