Poeti con il naso all’insù: una piccola antologia di versi sulle stelle, offerta nell’incontro “Il tempo e il cosmo: dialogo con la fede, la scienza e la letteratura”

La settimana scorsa, il 26 giugno per la precisione, l’Azione Cattolica di Miglianico ha proposto a tutta la parrocchia e alla cittadinanza l’incontro “Il tempo e il cosmo: dialogo con la fede, la scienza e la letteratura”, come incontro finale dell’anno associativo 2019-2020 che aveva come tematica proprio quella del tempo. Chiamati a svolgere il tema della serata sono stati Marco Drago, astrofisico e ricercatore del “Gran Sasso Science”, e don Gilberto Ruzzi, il nostro parroco, oltre a me, a cui è toccato di illustrare il rapporto speciale tra le stelle e i poeti di tutti i tempi.
La chiusura è stata poi affidata a Matteo Benedetto, astronomo, che, in diretta streaming da Mondovì, ha guidato tutti in una splendida “passeggiata” tra le stelle usando la app “Mappa Stellare”.

Non ho realizzato un vero testo di ciò che ho detto nell’incontro, anche perché volevo far parlare la poesia direttamente, perciò ho riunito le citazioni che ho fatto e ho cercato di ricordare le mie osservazioni. Ecco, più o meno, quanto ho detto:

Quando un nostro lontano antenato indoeuropeo, così come ognuno di noi, alzava gli occhi al cielo in una notte stellata cosa vedeva? Naturalmente, una distesa di luce. Dovete sapere che, come per i geroglifici egiziani, anche la lingua degli indoeuropei, che è la lingua madre di tutti noi occidentali, era per metà fonetica/sillabica e per metà rappresentava concetti e realtà fisiche; quando un indoeuropeo guardava la luce, la rappresentava e la diceva *t; le stelle poi attraversavano il cielo e l’indoeuropeo indicava l’attraversamento del cielo con *r(a). Quindi, le luci che attraversavano il cielo, cioè le stelle, erano *tr(a). E come si dice “stella” nelle principali lingue moderne, figlie e nipoti dell’indoeuropeo?
staras, in sanscrito; astér, in greco antico; astra, in latino; stella, in italiano; star, in inglese; stern, in tedesco.
Come si vede, tutte variabili dell’indoeuropeo *tr(a). Tutte le parole “di base” sono uguali in tutte le lingue perché rappresentano il dato comune di tutte le civiltà, come “mamma” e “papà”, che in tutte le lingue sono dette con nasali (m, n) e labiali (p, b, f).
Stella, dunque, è una parola “di base” e tutti gli esseri umani, alzando gli occhi al cielo, hanno affidato alle stelle gli stessi sentimenti e le stesse aspirazioni. Alcuni però le hanno messe per iscritto, quindi sono nate le tradizioni letterarie.
La prima che voglio farvi ascoltare risale al VII secolo a.C., la voce di una donna, una delle poche della letteratura universale, almeno fino al XIX secolo, quando caddero tutte le pregiudiziali contro le donne letterate, Saffo, che già allora inaugurava un topos letterario, quello della stella come compagna della solitudine d’amore:

 

δέδυκε μὲν ἁ σελάνα
καὶ Πληϊάδες, μέσαι δὲ
νύκτες, παρὰ δ’ ἔρχεθ’ ὥρα
ἐγὼ δὲ μόνα καθεύδω.

 

È ormai tramontata la luna;
caddero anche le Pleiadi.
A mezzo è la notte e scorre rapido il tempo.
Io sto qui
sola.
(Frammento 168V)

Ma un topos letterario molto più famoso lo crea addirittura il filosofo Platone, la stella come riflesso della donna amata. Una poesia che forse non si conosce molto, un semplice distico, ma la sua immagine è molto più nota di quel che immaginate:

ἀστέρας εἰσαθρεῖς Ἀστὴρ ἐμός· εἴθε γενοίμην
οὐρανός, ὡς πολλοῖς ὄμμασιν εἰς σὲ βλέπω.

 

Tu guardi le stelle, stella mia, e io vorrei essere
il cielo per guardare te con mille occhi.
(in Antologia Palatina, VI, 669)

Ma le stelle di notte sono soprattutto compagne e lo dice in maniera mirabile qualcuno che ha passato interminabili notti abbarbicato sulla vetta di qualche monte durante la Prima Guerra Mondiale, quando la solitudine del soldato di vedetta era terribile:

Quale canto s’è levato stanotte

che intesse

di cristallina eco del cuore

 

le stelle

 

Quale festa sorgiva

 

di cuore a nozze

 

Sono stato

 

uno stagno di buio

 

Ora mordo

 

come un bambino la mammella

 

lo spazio

 

Ora sono ubriaco

 

d’universo

 

(Giuseppe Ungaretti, La notte bella)

Ma le stelle servono forse a qualcosa? Sono compagne o sono inutili orpelli? Se lo chiede Vladimir Majakovskij in questa lirica, “Ascoltate!”, che rappresenta il più alto grido di “utilità” delle stelle:

Se accendono le stelle,

 

vuol dire forse che a qualcuno servono,

 

che qualcuno desidera che esse siano,

 

che qualcuno chiama perle questi piccoli sputi?

 

E, forzando

le bufere di polvere del meriggio,

 

si spinge fino a Dio,

 

teme d’essere in ritardo,

 

piange,

 

gli bacia la mano nodosa,

 

implora

ha bisogno di una stella! –

 

giura

 

che non può sopportare questo martirio senza stelle!

 

E poi

 

cammina

inquieto,

 

fa finta d’esser calmo.

 

Dice a qualcuno:

 

Allora, adesso, stai meglio?

 

Non hai paura?

 

No?!”.

 

Ascoltate!

 

Se accendono

 

le stelle,

 

vuol dire forse che a qualcuno servono,

 

che è indispensabile

 

che ogni sera

 

sopra i tetti

 

risplenda almeno una stella?

Ma le stelle sono sempre lì, immutabili e spesso sono tacciate di crudeltà, perché splendono comunque, indifferenti alla solitudine dell’uomo:

Così per la lor via vanno le stelle,

 

incomprese, immutabili!

 

Tu, mentre noi ci dibattiamo in vincoli,

 

di luce in luce ascendi.

 

Tu, la cui vita è tutta di splendore!

 

E se dalle mie tenebre

 

devo tendere a te braccia nostalgiche

 

sorridi e non m’intendi.
(Herman Hesse, Così vanno le stelle)


E adesso non posso che introdurre due brani di un autore che universalmente è conosciuto per la sua interrogazione degli astri e che personalmente è il poeta del cuore, Giacomo Leopardi, che nel contemplare le stelle ha guizzi poetici straordinari.
Ecco come esse lo riportano alla fanciullezza, proprio perché immutabili ed eterne, nei primi 24 versi de “Le ricordanze”:

Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea

 

tornare ancor per uso a contemplarvi

 

sul paterno giardino scintillanti,

 

e ragionar con voi dalle finestre

 

di questo albergo ove abitai fanciullo,

 

e delle gioie mie vidi la fine.

 

Quante immagini un tempo, e quante fole

 

creommi nel pensier l’aspetto vostro

 

e delle luci a voi compagne! allora

 

che, tacito, seduto in verde zolla,

 

delle sere io solea passar gran parte

 

mirando il cielo, ed ascoltando il canto

 

della rana rimota alla campagna!

 

E la lucciola errava appo le siepi

 

e in su l’aiuole, susurrando al vento

 

i viali odorati, ed i cipressi

 

lá nella selva ; e sotto al patrio tetto

 

sonavan voci alterne, e le tranquille

 

opre de’ servi. E che pensieri immensi,

 

che dolci sogni mi spirò la vista

 

di quel lontano mar, quei monti azzurri,

 

che di qua scopro, e che varcare un giorno

 

io mi pensava, arcani mondi, arcana

 

felicità fingendo al viver mio! (…)

Nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, Leopardi interroga gli astri in maniera esplicita e da essi, immutabili ed eterni, cerca di conoscere la verità su sé stesso, sull’umanità. Ai versi 84-98 si rivolge proprio alle stelle:

(…)E quando miro in cielo arder le stelle;ù

 

dico fra me pensando:

 

a che tante facelle?

 

Che fa l’aria infinita, e quel profondo

 

infinito seren? che vuol dir questa

 

solitudine immensa? ed io che sono?

 

Così meco ragiono: e della stanza

 

smisurata e superba,

 

e dell’innumerabile famiglia;

 

poi di tanto adoprar, di tanti moti

 

d’ogni celeste, ogni terrena cosa,

 

girando senza posa,

 

per tornar sempre là donde son mosse;

 

uso alcuno, alcun frutto

 

indovinar non so. (…)

 

 

Tutti conosciamo il binomio stelle cadenti / lacrime, perché lo abbiamo studiato a scuola in Giovanni Pascoli (X agosto), ma in realtà questo topos letterario è più antico, perché lo ha coniato, almeno in letteratura italiana, un autore che ci fanno conoscere solo per il suo poema cavalleresco, tra l’altro continuamente rimaneggiato per le sue fisime ed ansie religiose:

Qual rugiada o qual pianto

quai lagrime eran quelle

 

che sparger vidi dal notturno manto

 

e dal candido volto de le stelle?

 

E perché seminò la bianca luna

 

di cristalline stelle un puro nembo

 

e l’erba fresca in grembo?

 

Perché ne l’aria bruna

 

s’udian, quasi dolendo, intorno intorno

 

gir l’aure insino al giorno?

 

Fur segni forse de la tua partita,

 

vita de la mia vita?

(Torquato Tasso, Qual rugiada o qual pianto)

Arriviamo adesso alla poesia che dà il titolo al mio intervento, di un poeta che non intercetta i circuiti scolastici né tanto meno è particolarmente citato in Italia (diversamente da tutta l’area anglosassone), Edward Estling Cummings, che in “Tuffati nei sogni” ha rielaborato gran parte dei topoi che ho citato finora per farne qualcosa di nuovo, fresco, dai significati incredibilmente moderni:

Tuffati nei sogni

 

o uno slogan potrebbe farti vacillare

 

(gli alberi sono le loro radici

 

e il vento è il vento)

 

fidati del tuo cuore

 

se il mare prende fuoco

 

(e vivi per amore

 

anche se le stelle camminano all’indietro)

 

onora il passato

 

ma accogli il futuro

 

(ed esorcizza la morte

 

al tuo matrimonio)

 

Non preoccuparti di un mondo

 

con i suoi cattivi ed eroi

 

(per cose come ragazze, e il domani e la terra)

 

che nonostante tutto

 

respira e si muove dal momento che il Fato

 

(con lunghe e bianche mani

 

abbellisce le nostre rughe)

 

ammalierà completamente le nostre menti

 

prima di lasciare la mia stanza

 

mi volto e, (inchinandomi

 

al mattino) bacio questo cuscino, caro

 

dove le nostre teste hanno vissuto e hanno riposato.

 

Se tacitamente, dalla più insignificante e

 

sconosciuta notte, arriva un’altra esile possibilità

 

(che è solo di questo mondo) la mia vita

 

non balza che con il mistero del tuo sorriso

 

che canta o se (crescendo luminose

 

mentre cadono nell’oblio) le voci che sono sogni,

 

la terra nuota certamente meno nel cielo

 

ad ogni mio più profondo respiro che diventa un tuo bacio

 

perdendo attraverso te quello che sembravo essere io, trovo

 

parti che non avrei mai immaginato essere mie; oltre

 

il dolore c’è la gioia, e oltre la speranza la paura,

 

tua è la luce che dà vita al mio spirito:

 

tuo il buio in cui fa ritorno la mia anima

 

tu sei il mio sole, la mia luna, tutte le mie stelle.

Chiudo questo mio intervento con un sorriso: le stelle, anche qui sono quelle cadenti, che fanno fare un sogno che finisce in risata. Scusate il mio romanesco improponibile, anche perché la poesia è dell’autore dialettale romano più conosciuto in Italia, Trilussa:

Quanno me godo da la loggia mia

 

quele sere d’agosto tanto belle

 

ch’er celo troppo carico de stelle

 

se pija er lusso de buttalle via,

 

a ognuna che ne casca penso spesso

 

a le speranze che se porta appresso.

 

Perché la gente immaggina sur serio

 

che chi se sbriga a chiede quarche cosa

 

finché la striscia resta luminosa,

 

la stella je soddisfa er desiderio;

 

ma, se se smorza prima, bonanotte:

 

la speranzella se ne va a fa’ fotte.

 

Jersera, ar Pincio, in via d’esperimento,

 

guardai la stella e chiesi: — Bramerei

 

de ritrovamme a tuppertù co’ lei

 

come trent’anni fa: per un momento.

 

Come starà Lullù? dov’è finita

la donna ch’ho più amato ne la vita? — 

 

Allora chiusi l’occhi e ripensai

 

a le gioje, a le pene, a li rimorsi,

 

ar primo giorno quanno ce discorsi,

 

a quela sera che ce liticai…

 

E rivedevo tutto a mano a mano,

 

in un nebbione piucchemmai lontano.

 

Ma ner ricordo debbole e confuso

 

ecco che m’è riapparsa la biondina

 

quanno venne da me quela matina,

 

giovene, bella, dritta come un fuso,

 

che me diceva sottovoce: — È tanto

 

che sospiravo de tornatte accanto! —

 

Er fatto me pareva così vero

 

che feci fra de me: — Questa è la prova

 

che la gioja passata se ritrova

 

solo nel labirinto der pensiero.

 

Qualunquesia speranza è un brutto tiro

 

de l’illusione che ce pija in giro.

 

Però ce fu la mano der Destino:

 

perché, doppo nemmanco un quarto d’ora,

 

giro la testa e vedo una signora

 

ch’annava a spasso con un cagnolino.

 

Una de quele bionde ossiggenate

 

che perloppiù ricicceno d’ estate.

 

Chissà — pensai — che pure ‘sta grassona

 

co’ quer po’ po’ de robba che je balla

 

nun sia stata carina? —

E ner guardalla

 

trovai ch’assommava a ‘na persona…

 

Speciarmente er nasino pe’ l’insù

 

me ricordava quello de Lullù…

 

Era lei? Nu’ lo so. Da certe mosse,

 

da la maniera de guarda la gente,

 

avrei detto: — È Lullù, sicuramente… —

 

Ma ner dubbio che fosse o che nun fosse

 

richiusi l’occhi e ritornai da quella

 

ch’avevo combinato co’ la stella.

 

 

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