Perché è necessario l’equo compenso: un’altra storia in rete
Siamo sempre in attesa della definizione della richiesta (del tutto fuori luogo e fuori legge) della Fieg di avere ben nove rappresentanti nella commissione ministeriale che dovrà quantificare l’equo compenso e che è bloccata proprio per questa manovra del tutto dilatoria (visto che la legge è chiarissima sul punto della composizione della commissione stessa): tempo utile per continuare a raccogliere storie di precariato che è utilissimo conoscere e diffondere per comprendere sempre di più quanto sia necessaria una rapida applicazione della legge sull’equo compenso giornalistico.
Quella di oggi è una storia che ha destato molto interesse e scalpore in rete, che ha come protagonista Chiara Giannini, che l’ha raccontata sul suo blog:
Vent’anni di gavetta, perché non finisci mai di tentare la scalata, in questo mondo fatto di block notes e registratori. Vent’anni in cui ti sei reso conto che ogni giorno che passa ti aggravi sempre di più, perché il giornalismo è una malattia, che peggiora col passare del tempo, che ti corrode l’anima, ti impedisce di dormire la notte. Quando scoppiò il conflitto libico iniziai a rigirarmi nel letto per ore e ore. Non c’era verso di chiudere occhio, dovevo partire. In nome di quella passione che arde dentro di te e che ti fa sentire che ogni notizia che non vai a verificare di persona è una notizia persa. Ero reduce da anni di collaborazioni con Il Tirreno, quotidiano locale del gruppo Espresso in cui le promesse vane dei capiservizio erano addolcite con la pillola delle 400 lire a modulo (4 righe) prima e dei 20 centesimi dopo. Trascorrevo la mia giornata in redazione, dal lunedì alla domenica, ma ero felice, era la mia vita, quella. Nient’altro mi procurava tanta adrenalina quanto il poter scrivere un fatto di cronaca. E la gioia maggiore arrivava la mattina successiva, quando potevo toccare con le mani la carta opaca del giornale. La accarezzavo, la strofinavo, delicatamente, come si fa con la pelle morbida di un bambino. Leggevo il mio articolo, lo rileggevo ancora. E poi la gioia del momento lasciava il passo all’ansia, a quel fuoco che sembra corroderti lo stomaco, la voglia di passare alla notizia successiva. Ma il rapporto con quel giornale si interruppe in seguito a una mia lettera all’allora direttore, Bruno Manfellotto, in cui facevo presente che dopo quasi un decennio di collaborazione sottopagata, dopo aver dato il sangue a quel quotidiano, nessuna prospettiva di assunzione pareva aprirsi. Ricordo che andai a parlarci. Mi disse: “Frequenta una scuola di giornalismo e poi ne riparliamo”. Avevo 32 anni e una laurea e lo odiai, quanto non potete immaginarlo. Guadagnavo 300 euro al mese e i miei genitori ne rimettevano almeno 700 per mantenere questo mio “capriccio giornalistico”. Ma lo facevano perché sapevano che era la mia vita. A 32 anni nessuna scuola di giornalismo ti prende. Mi aveva chiuso le porte in faccia. Quando aprì il Corriere di Livorno, molti anni dopo, fui assunta come praticante, redattore e diventai, infine, responsabile della redazione di Cecina. Ma le vicende giudiziarie di quel giornale sono note a tutti. Chiuse dopo tre anni. Non riscuotemmo per dieci mesi e non abbiamo mai avuto i soldi per straordinari e domeniche lavorate. Avevo all’attivo 4.400 ore in più, il cui corrispettivo, con ogni probabilità, non lo vedrò mai. Partii per la Tunisia, per seguire il conflitto libico e da lì mi sono specializzata in Difesa e Forze armate e ho iniziato a girare, ad affrontare i teatri operativi e le zone di conflitto assieme ai grandi inviati e ho scoperto di avere stoffa, per questo lavoro. “Un purosangue su cui nessuno aveva mai scommesso”: mi ha detto più volte un grande amico e grande reporter di guerra. Il primo che mi abbia dato fiducia. Spesso in prima pagina, sempre in prima linea. Per appena 50 euro ad articolo, anche dall’Afghanistan, anche dai posti peggiori. E spesso anche gratis, perché qualche giornale non ha soldi per pagarmi. Perché a questo ha portato la crisi dell’editoria e un sistema che i poteri forti non sono disposti a spezzare. Ho quasi quarant’anni e faccio la freelance. Ho tirato avanti a lungo con la cassa integrazione e in seguito con la disoccupazione. Alcuni dei giornali per cui scrivo pagano a sei mesi. Finora questa storia non ve l’avevo raccontata. Ma credo sia giusto farlo, per i giovani che intendano avvicinarsi a questa professione, per chi crede che i giornalisti siano brutti, cattivi e ultra pagati, per chi vede il giornalista solo come qualcuno che sta dietro a una scrivania e compone l’articolo grazie alle agenzie. Io le mie chiappe le ho sempre alzate e sono andata a tastare con mano, a verificare ciò che accadeva, ho sofferto, ho sudato sangue per il mio lavoro, ma sono ancora qui a farlo, nonostante tutto. Sono qui a scrivere perché, dopo tanti anni, ho deciso di fare l’unica cosa possibile: emigrare. Perché in Italia c’è la crisi, perché in Italia i politici ti querelano (ho due querele importanti, da Gianfranco Fini ed Enrico Rossi, così saranno felici di esser citati in questo articolo e forse mi quereleranno di nuovo), perché in Italia vanno avanti i mediocri o i raccomandati o chi scrive senza mai alzare il sedere da una sedia o, come mi è capitato di vedere un po’ di tempo fa, come i giornalisti del Corriere della Sera, che arrivano sul posto con l’auto NCC (noleggio con conducente) o come chi si sente un giornalista di serie A, solo perché ha un regolare contratto o ancora chi si sente privilegiato perché viene invitato, in quanto assunto, a ogni evento nazionale o internazionale, mentre a noi poveri freelance capita solo ogni tanto e nella maggior parte dei casi tocca pagarci il viaggio. Oggi ho detto basta e ho deciso di emigrare. Continuerò a scrivere in inglese, visto che in italiano non mi consentono più di farlo, perché scrivere in italiano non ti dà più da mangiare. So, goodbye and good luck. A tutti coloro che sono giornalisti davvero, coloro che soffrono e non si arrendono, coloro che scrivono e lo fanno come missione di vita. A tutti gli altri auguro di cambiare mestiere. O di fare come me. Perché l’Italia è buona solo per la pastasciutta.