Sul caso Sallusti: e se fosse capitato ad un freelance o ad un precario?
Senza dubbio il caso del giorno, oltre (per gli addetti ai lavori) alla riunione del Comitato ristretto della Commissione Lavoro sul disegno di legge dell’equo compenso, è quello della condanna in via definitiva del direttore de “Il Giornale”, Alessandro Sallusti per diffamazione nei confronti di un magistrato, o meglio di “omesso controllo” su di un pezzo non firmato apparso sul quotidiano di cui è responsabile.
Una condanna che non può non interrogare chiunque faccia informazione in Italia.
Premesso che la legge è legge e quindi un direttore responsabile (e io lo sono, quindi comprendo anche la delicatezza di un controllo assoluto che spesso è fisicamente impossibile) deve comunque assicurarsi che ciò che pubblica non sia contrario alle norme, tuttavia è assurdo che i reati cosiddetti d’opinione siano punibili ancora con il carcere.
La diffamazione è, come mi si diceva al corso in preparazione dell’esame professionale, il “reato classico” del giornalismo e ritengo comunque che si debba prestare la massima attenzione, nello svolgere una professione delicata come la nostra, alla salvaguardia della dignità delle persone, poiché l’arma della parola, scritta o parlata, è davvero potentissima, oltre ogni immaginazione a volte (e noi che scriviamo nella “provincia” sappiamo bene quanto sia potente ogni virgola scritta su un quotidiano o detta su un’emittente regionale). Tuttavia, punirla con la reclusione mi sembra cosa da “Codice Rocco” (cui, peraltro, la norma attuale, presente sin dal 1948 nel codice penale e nelle leggi sulla professione, si rifà, salvo per il diritto a vedersi dare soddisfazione in singolar tenzone).
Occorre poi contare un aspetto non secondario del caso specifico, quello di Alessandro Sallusti: che cioè il diffamato sia un magistrato e che pare – come rivelato dal direttore stesso in un fondo di qualche giorno fa – abbia chiesto un altro esborso al giornalista, già condannato in primo grado ad un’ammenda, per la remissione della querela. La sensazione che ha dato tutta la storia è quella che la magistratura si comporti come una casta, difendendosi sempre e comunque.
Bene hanno fatto i vertici del sindacato, l’Ordine dei Giornalisti, i colleghi giornalisti piccoli e grandi a stigmatizzare la vicenda e, abbandonate per una volta le fazioni (spesso politicamente identificabili) che dividono la nostra litigiosa categoria, a chiedere una reazione ferma e univoca da parte della politica, del Governo, dei responsabili della cosa pubblica.
Tuttavia, dal punto di vista professionale non posso non chiedermi quale sarebbero state le reazioni se ad essere condannato fosse stato un qualsiasi freelance o un qualsiasi precario della provincia italiana, senza accesso ai mezzi di informazione “alti”.
Non solo: il mio dubbio si estende al considerare quanto la legge sulla diffamazione (sacrosanta, ripeto, ma spesso abusata) possa diventare uno strumento di intimidazione per i giornalisti, in particolare per quelli che non hanno mezzi (né economici né contrattuali né di opinione pubblica) per opporsi ad una semplice minaccia di querela, ossia ormai la stragrande maggioranza della categoria.
Amo questo mestiere, lo faccio da vent’anni, ovviamente da precario, ma questa considerazione questa sera mi fa vacillare: la libertà di stampa, la libertà dei cittadini di essere a conoscenza di quanto accade e quindi di formarsi un giudizio critico sulla realtà passa essenzialmente per giornalisti liberi, non ricattabili, non tenuti alla canna del gas da paghe da fame. Anche per questo è necessario, seppure non sufficiente, che al più presto si approvi la legge sull’equo compenso giornalistico.
Paradossalmente, come dicevamo su Twitter scambiandoci le prime impressioni dopo la sentenza della Cassazione io e la collega Francesca Rana, con la sua condanna Alessandro Sallusti è diventato il miglior promoter per la legge sull’equo compenso. Lo prendiamo anche come testimonial, visto che sono proprio i precari ad essere stati immediatamente più solidali con lui?
Nonno parole….ma pauracdi vivere in questo paese. !!!!
Antonello, il grave non è la condanna a Sallusti in sè, ma il modo, la logica, la posizione professionale e “politica” del condannato e del querelante. Lo zelo dei giudici, l’inesorabilità del procedimento, l’accanimento venale, l’ostentazione tronfia di muscoli e di potere. Perchè non si ha il coraggio di dirlo?
La situazione è così grave che secondo recenti ricerche effettuate sui dati ufficiali dell’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani (Inpgi) il 75% dei freelance guadagna in media meno di 10.000 euro lordi l’anno, e il 62% meno di 5.000!