Continua la pressione mediatico-parlamentare per l’equo compenso: arriva una lettera per Paolo Peluffo. Intanto spuntano i contratti… al ribasso!
Che la spinta propulsiva del pressing mediatico-parlamentare in favore dell’equo compenso non si sarebbe esaurita con la conferenza stampa di martedì 31 luglio al Senato era nell’aria e oggi ne abbiamo avuto una conferma autorevole con la lettera inviata dagli onorevoli Silvano Moffa ed Enzo Carra (rispettivamente primo firmatario e relatore del ddl sull’equo compenso alla Camera dei Deputati) al sottosegretario all’Editoria, Paolo Peluffo, individuato come il referente primo per il blocco del provvedimento in Commissione Lavoro, visto che non ha ancora fornito il parere ufficiale del Governo.
Il testo della lettera è stato rivelato sulla sua bacheca Facebook dal sempre solerte presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Enzo Iacopino:
Al Senato giace da tempo la proposta di legge sull’Equo Compenso del Lavoro Giornalistico già approvata in sede legislativa alla Commissione Cultura della Camera dei Deputati, col parere favorevole del Governo. Il voto unanime alla Camera significa che tutte le forze politiche hanno ritenuto la legge un provvedimento giusto. Successivamente, col voto al decreto editoria, lei stesso ha dato parere favorevole a un ordine del giorno che ne sollecita la rapida approvazione. Poi, al Senato, in modo irrituale si è registrato un rallentamento, anzi, un tentativo di insabbiare una legge alla quale era stata riconosciuta la corsia preferenziale. Si rischia così di dar vita ad un pericoloso precedente. Lei, signor Sottosegretario, è un uomo d’onore, e ha detto in Aula alla Camera che al Senato nulla avrebbe ostacolato le procedure. Anche il Presidente Schifani, alcuni giorni fa, con una sua lettera ha confermato che Palazzo Madama avrebbe garantito tempi certi per l’approvazione definitiva. Siamo sicuri, signor Sottosegretario Peluffo, che la Sua onorabilità e la posizione del Governo espressa in Aula sono altrettante assicurazioni che sarà sbarrata la strada ad ogni tentativo di impedire l’approvazione di una legge che vuole porre rimedio ad una ingiustizia sociale.
Il pressing si fa dunque asfissiante. Occorre intensificarlo anche verso i componenti della Commissione Lavoro che insistono per l’inutile comitato ristretto che dovrebbe valutare la compatibilità del ddl sull’equo compenso con la riforma del mercato del lavoro (che esclude già i cococo e gli iscritti ad Ordini professionali).
Una legge quanto più urgente tanto più emergono in ogni parte d’Italia storie indecorose ed assurde, come quella raccontata martedì scorso dal presidente Iacopino sul “conto scoperto” che avrebbe dovuto garantire i pagamenti di colleghi di una tv del Friuli Venezia Giulia o come quella emersa oggi dall’arch. Paolo Bruno, che ha postato sul suo blog un assurdo bando per addetto stampa del Comune di Cardano al Campo (VA), in cui tra i punti assegnabili dalla commissione di valutazione compariva anche la “proposta di riduzione del compenso”. Il tutto scritto, nero su bianco, su un bando pubblico, dove – tra l’altro – per le mansioni di addetto stampa più diverse altre cose, tra le quali l’assunzione del ruolo di “caporedattore” (sic) del semestrale istituzionale (ciò dimostra quale sia la cultura giuridica e contrattuale dell’estensore del bando) si offriva la straordinaria cifra di 600 euro lordi al mese.
Siamo arrivati alla squalifica totale della professione, che qualcuno vorrebbe sottoposta addirittura ad una vergognosa “asta al ribasso”. Questo è il risultato di anni di compensi ridicoli, di ribassi continui, di “colleghi” (tra molte virgolette) che hanno accettato di lavorare per compensi assurdi o addirittura gratis, “per visibilità”, di pensionati o dopolavoristi che hanno riempito di collaborazioni a buon mercato (tanto lo stipendio lo portano a casa lo stesso) le testate italiche ad ogni latitudine.
Per questo, la lotta per l’approvazione dell’equo compenso è una lotta di giustizia e di civiltà, di etica e di principio: lì dove non riesce a vincere la correttezza deontologica e la dignità professionale, allora ben venga una legge cogente per tutti, che probabilmente restringerà il mercato del lavoro, ma lo renderà quanto meno dignitoso!
Per questo gli editori temono l’arrivo di una legge siffatta nell’ordinamento giuridico nazionale: con essa sparirebbero tutti coloro che si prestano a prestazioni gratuite o da fame e tutti coloro che sono costretti a chinare il capo ed accettarle potranno avere un’arma potente al proprio fianco.
Infine, riporto l’articolato documento della Commissione Lavoro Autonomo del Lazio e del coordinamento degli atipici dell’Associazione Stampa Romana distribuito martedì scorso in Senato nel corso della conferenza stampa sull’equo compenso:
Dopo il parere negativo del Ministro del Lavoro la norma è bloccata al Senato
Subito l’equo compenso per i giornalisti “atipici”
Noi professionisti “atipici” dell’informazione auspichiamo che i Senatori non ignorino gli autorevoli appelli del Presidente della Repubblica e dei Presidenti di Senato e Camera e procedano, quindi, alla rapida approvazione del progetto di legge sull’equo compenso per il lavoro giornalistico non dipendente. Chiediamo, infatti, il giusto riconoscimento economico del nostro lavoro, come previsto dallo spirito dell’art. 36 della Costituzione («Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa»), tanto più che garantiamo ogni giorno il diritto dei cittadini all’ informazione, diritto costituzionalmente sancito.
Noi “atipici” siamo ormai più della metà dei giornalisti italiani: ben 24 mila (dai 30 ai 50 anni) a fronte dei 19 mila assunti, come evidenzia una ricerca di Lsdi (Libertà di stampa e diritto all’informazione), basata su dati dell’Ordine dei giornalisti e dell’Inpgi, Istituto di previdenza della categoria. Non è quindi un «problema che attiene soprattutto ai giovani», come ha sostenuto il Ministro del Lavoro Elsa Fornero durante l’audizione alla Commissione Lavoro del Senato.
Gli “invisibili” dell’informazione
Contribuiamo per oltre il 50% alla realizzazione di quotidiani, periodici, radio, tv, online; le nostre firme sono sulle principali testate italiane, realizziamo inchieste sulla mafia e corrispondenze di guerra, ma lavoriamo con armi spuntate, percependo compensi spesso vergognosi per un Paese che si definisce civile, come ha già rilevato qualche anno fa una ricerca dell’Ordine dei giornalisti «Smascheriamo gli editori» e, di recente, sia un’indagine (in allegato) del Coordinamento giornalisti precari Errori di Stampa – realizzata grazie al contributo delle realtà di base italiane – sia una ricerca della Commissione nazionale lavoro autonomo della Federazione nazionale stampa italiana (in allegato).
Si aggiunge, inoltre, il taglio indiscriminato dei compensi – sovente pari a più del 30% – deciso unilateralmente dagli editori, applicato in diversi casi addirittura retroattivamente.
Negli ultimi anni, poi, diverse testate, anche nazionali, hanno accumulato forti ritardi (in alcuni casi fino a 2 anni) nel versamento dei compensi ai collaboratori, al punto che il lavoratore meno tutelato diventa doppiamente vittima della crisi (editoriale ed economica) nonostante continui a svolgere regolarmente il suo lavoro.
E poi: lavoriamo senza tutele contrattuali (per esempio, senza aver diritto ai giorni di malattia o a ferie retribuite), previdenziali, assicurative, senza la possibilità di accedere agli ammortizzatori sociali se una testata chiude o è in crisi o, semplicemente, decide da un giorno all’altro di non avvalersi più della nostra collaborazione, anche decennale.
Retribuzioni indecorose
È questo il risultato della deregulation selvaggia che negli ultimi anni ha interessato anche la nostra categoria, con la proliferazione di contratti (quando ci sono) atipici.
Secondo dati Inpgi aggiornati al 2 luglio, risultano più di 35 mila – pari al 34,2% del totale degli iscritti all’Ordine dei giornalisti – le posizioni “precarie” della gestione separata (Inpgi 2, cui sono iscritti gli “atipici” ndr), con un incremento di quasi il 9% rispetto al 2011. Come emerge dal bilancio consuntivo 2011 dell’Istituto di previdenza: «La categoria dei lavoratori autonomi continua a evidenziare redditi contenuti. In particolare, per l’anno 2011 i libero-professionisti hanno denunciato un reddito medio pari a 12,5 mila euro lordi, mentre i titolari di contratti di collaborazione coordinata e continuativa (i cosiddetti co.co.co.) hanno una retribuzione media di 9,7 mila euro».
È quindi sempre più diffuso il ricorso da parte degli editori a forme di lavoro “autonomo” che spesso dissimulano lavoro subordinato, con retribuzioni indecorose – spesso liquidate anche a distanza di mesi – che offendono la dignità personale, oltre che professionale. C’è, per esempio, chi scrive più di 700 articoli l’anno per una stessa testata, guadagnando appena 600 euro al mese…
Democrazia a rischio
Un lavoro sempre più precario rende il giornalista vulnerabile perché facilmente oggetto delle pressioni degli editori. Di conseguenza un’informazione sotto ricatto è un gravissimo danno per i cittadini e la democrazia.
Per questo non è più procrastinabile l’approvazione del progetto di legge sull’equo compenso per il lavoro giornalistico non dipendente, fermo al Senato dopo essere stato approvato alla Camera. Prevede, tra l’altro, che il rispetto dei compensi minimi debba essere requisito necessario per l’accesso a qualsiasi contributo pubblico da parte delle aziende editoriali. Per noi professionisti i compensi minimi rappresentano una base economica di partenza e non di arrivo, utile tuttavia a porre un freno sia al precariato sia soprattutto allo sfruttamento del lavoro che spesso degenera in caporalato.
Colmare il vuoto legislativo
La legge sarebbe inoltre indispensabile a coprire – sebbene in minima parte – un vuoto normativo che non è stato “sanato” dalla recente Riforma del mercato del lavoro. Questa, secondo il Ministro Fornero, già prevede «una soluzione al problema dei compensi dei lavoratori atipici». Ma ciò è vero per i titolari di contratti a progetto, i co.co.pro., per i quali è previsto il cosiddetto «salario minimo», di certo non per chi ha una collaborazione coordinata e continuativa, tipologia di contratto prevista per gli iscritti ad Albi professionali, come i giornalisti.
Si ha quindi il paradosso che un lavoratore non iscritto all’Albo dei giornalisti, se svolgesse una collaborazione di natura giornalistica regolata da un co.co.pro., godrebbe dell’equo compenso, mentre non ne ha diritto un giornalista co.co.co iscritto all’Albo. Lo avrebbe solo se svolgesse una qualunque altra collaborazione non giornalistica, dunque non connessa alla qualifica professionale per la quale è iscritto all’Albo dei giornalisti. Una discriminazione grave e inaccettabile perché prevista da una legge dello Stato. Inoltre, per chi è iscritto a un Albo professionale come i giornalisti, sempre più spesso costretti ad aprire la partita Iva – anche dai principali gruppi editoriali – pur lavorando per un solo committente, è esclusa la presunzione di rapporto di lavoro subordinato, prevista per gli altri “atipici” nei casi indicati dalla Legge.
È poi grave, inaccettabile e discriminante non aver previsto all’interno della medesima Riforma la possibilità di un fondo di garanzia da cui attingere in caso di espulsione dal mercato del lavoro.Occorre, dunque, che il Parlamento provveda a eliminare queste anomalie con l’approvazione di norme che estendano anche ai giornalisti autonomi la tutela salariale, il ricorso agli ammortizzatori sociali e la presunzione di rapporto di lavoro subordinato quando ci sono i requisiti, così come previsto dalla «Riforma Fornero» per gli altri lavoratori atipici.
http://www.comunicazionelavoro.com/comunicazione-e-informazione-incarico-comunale
Un altro fulgido esempio di sfruttamento!
Grazie della segnalazione: qui, oltre al compenso irrisorio, c’è la palese ignoranza della legge 150 che prescrive che siano solo giornalisti iscritti all’Ordine a poter svolgere la funzione di addetti stampa nella Pubblica Amministrazione e che quindi i contributi non vanno versati ad Inps ed Inail ma all’Inpgi.
Caro Antonello, denunciare la de-regulation che affligge il settore è più che sacrosanto. Secondo me, però, non serve farlo guardando al passato, che non tornerà mai più e non riserverà mai più rendite di posizione per noi giornalisti. Occorre guardare al futuro, accettando le sfide che ci pone e cercando di governarle. Per questo mi sono permesso di avanzare qualque perplessità sulla legge per l”equo compenso” – che rischia di fare un buco nell’acqua – e per lo stesso motivo denuncia l’inerzia dei nostri organi di categoria, colpevoli al pari degli editori, nel degrado professionale che ci affligge.
Allodole e Specchietti
http://www.amedeoricucci.it
A costo di risultare sgradevole mi permetto di esprimere qualche perplessità sull’unanimismo che sembra aver compattato la categoria – Ordine dei Giornalisti e FNSI, precari e garantiti