“Vuoi fare il giornalista? Trovati un lavoro serio!”: lo dicono pure i numeri!
“Sentimi, Antonello: per ora fai questo mestiere per hobby, poi trovati un lavoro serio e lascia perdere”: così un giorno, il mio primo caposervizio, da cui ho imparato gran parte del mestiere, il mitico Giampiero, mi ha sussurrato dopo che aveva capito che la mia passione si stava alimentando di giorno in giorno. Era il 1995, ero un ventenne iscritto alla facoltà di Lettere e Filosofia e collaboravo da due anni a “Il Tempo” con crescente entusiasmo perché per me era la realizzazione di un sogno di sempre: sebbene quelli fossero ancora gli “anni d’oro” del giornalismo, Giampiero aveva già visto lungo e aveva capito le difficoltà nelle quali noi giovani ci saremmo impelagati negli anni successivi.
Il mio caposervizio aveva ragione ma sapeva già che io non l’avrei ascoltato perché anche lui era (ed è ancora: sebbene in pensione, a volte mi chiama al telefono come se fosse il mio caposervizio per indicarmi dei pezzi da poter fare) appassionato di questo mestiere. Tuttavia, anche ai ragazzi (e anche adulti) che negli anni hanno frequentato il Corso (privato e non professionalizzante) di Giornalismo Culturale che mi vede come docente, io ripeto sempre quel consiglio, ma aggiungendo sempre “però il giornalismo è il mestiere più bello del mondo” e “se proprio lo volete fare, ricordatevi che dovete tenere duro per anni e anni, e non è detto che riusciate”.
Tutta questa premessa “biografica” per presentare una interessantissima infografica pubblicata due giorni fa dal sito Linkiesta, che ha fotografato in maniera straordinariamente nitida la situazione dei giornalisti in Italia ed ha mostrato chiaramente quanto ognuno di noi già sa benissimo: in Italia il giornalismo vive una situazione di dualismo estremo, con pochi che ricevono stipendi abbondanti (a dir poco) con garanzie di ferro e moltissimi che si dibattono in condizioni di semi-povertà, mentre una percentuale sempre più alta dichiara addirittura zero euro di reddito.
Insomma, lo dicono anche i numeri: il giornalismo non è un mestiere da consigliare. Poiché le infografiche di Linkiesta erano scaricabili, propongo le slide più significative.
Prima slide. Quanti siamo? Certamente troppi:
Centodiecimila, per quasi due terzi pubblicisti, metà dei quali neppure iscritti all’Inpgi. Come mai? Sono giornalisti che non esercitano? E perché sono ancora iscritti all’Ordine? O sono giornalisti che esercitano in nero?
Ma andiamo alla “vile pecunia”. Quanto guadagnano gli autonomi (90 mila circa contro 21 mila contrattualizzati)?
Come si vede, nel corso degli anni è aumentato il numero dei colleghi autonomi che dichiarano addirittura un reddito nullo (dal 4,5% del 1996 al 23% del 2009) e in totale il 73% di freelance, collaboratori, precari guadagna meno di 10 mila euro all’anno (lordo, ovviamente!). Possibile?
Se invece ci focalizziamo sui contratti di collaborazione coordinata e continuativa (i famigerati co. co. co.), la situazione viene confermata, ma i dati, più precisi, fanno ancora più paura:
Credo che ci sia poco da aggiungere. Solo forse presentare i dati relativi ai “garantiti” (il 20% circa del totale) senza alcun commento, per far comprendere che la vera differenza non è tra pubblicisti e professionisti (una distinzione ormai anacronistica, visto che gli autonomi sono ormai sempre più professionisti e non solo pubblicisti, com’era un tempo), ma tra “garantiti” e “non garantiti”.
Infine, i più fortunati, i pensionati:
E poi si stupiscono se io mi arrabbio quando vedo un pensionato Inpgi che lavora ancora, anche solo da collaboratore: con tutto quello che prendono di pensione, che lasciassero ai giovani un po’ di reddito! L’ho urlato a Firenze, il 7 e 8 ottobre, ricevendone un sonoro plauso.
Tuttavia, non è questa la sede di rivendicazioni.
Sono cifre che fanno riflettere: il giornalismo è ancora un mestiere ambito, che esercita un grande fascino sui giovani (e non potrebbe essere diversamente, tanto bello è questo lavoro e tanta è la passione e il senso di sacrificio che ci vuole per farlo!), ma occorre anche aprire gli occhi e dire che la situazione è ormai insostenibile, con i due terzi dei colleghi, che poi rappresentano quasi tutta la “manovalanza” giornalistica, senza la quale molte testate non potrebbero neppure continuare ad esistere, che guadagnano stipendi da fame. E c’è ancora chi accetta di lavorare gratis “solo per la firma”, “per la fama”, “per il piacere di vedere il proprio nome sul giornale” (così si spiega anche l’esplosione dei colleghi a reddito zero?), rovinando di fatto il mercato e precipitando in maniera insensata coloro che vogliono fare questo mestiere per vivere.
Una riflessione su questi numeri, per i quali non ringrazierò mai abbastanza “Linkiesta” per averli così plasticamente messi insieme, fa sì che diventi sempre più urgente l’approvazione della legge sull’equo compenso, attualmente alla Camera dei Deputati.
Caro Antonello, premesso che sono pienamente d’accordo sull’ingiustizia e inciviltà di pagare con poche vili monete i giovani collaboratori. I migliori, a mio avviso, vanno aiutati. La mia esperienza di redazione (quasi 40 anni, sono un pensionato INPGI) mi porta ad affermare che non mi è mai, dico mai, capitato di incontrare un caposervizio che non cerca di aiutare i collaboratori, precisi, puntuali, capaci di portare notizie, al altre parole professionali. Aiutarli in ogni modo è sempre stato un obbligo morale perchè sono quelli che arricchiscono i giornali. Gli editori non la pensano allo stesso modo. Non vogliono assumere, gli organici si riducono giorno dopo giorno. Trionfano “cassa integrazione” e prepensionamenti. Si va verso il giornalismo all'”Americana” ( ma da qualche anno anche all'”Europea”: pochi giornalisti interni, che si occupano delle pagine, e collaboratori meglio ancora se specializzati. Il problema è come vengono pagati: con pochi soldi? No, grazie!
Per quanto riguarda il tuo accenno alla pensione dei giornalisti (mi riferisco ai “professionisti”) è calcolata con percentuali molto alte sullo stipendio. E’ sempre stata una pensione “privata”. Vale a dire che se percepiscono più di altre categorie professionali è perchè il loro contributo è stato molto più alto. Nessuno ci regala niente. Ma vi è di più. I colleghi in servizio hanno aumentato il contributo per sostenere la spesa dei colleghi (tantissimi) messi in cassa integrazione o prepensionati per esubero visto che il settore è in crisi (richiesta dagli editori). E’ bene anche precisare che i giornalisti assunti non si limitano a seguire la “notizia” e scriverla, ma hanno il peso di confezionare le pagine, smontarla e rimontarla più volte per adeguarla alle notizie in arrivo, seguire il lavoro di composizione in tipografia, fare i turni di notte. Con tutto il rispetto e la stima per i colleghi che collaborano, si tratta di attività diverse. Per il resto, complimenti sinceri per il tuo impegno!
Gentile Salvatore,
non mi riferivo alla congruità della pensione percepita dai colleghi, che mi va pure bene che sia alta, ma non accetto che a chi percepisce una pensione Inpgi o qualsiasi altra pensione venga permesso di collaborare con una testata, togliendo spazio ai giovani colleghi e alterando di fatto il mercato, poiché la maggior parte di quelli che conosco, avendo in tasca una ricca pensione, non si preoccupano dei bassi compensi che percepiscono per la collaborazione.
Chiedo scusa per qualche refuso, ma il post è “partito” senza darmi il tempo di rileggerlo.Grazie!
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Sebbene il post qui presente non sia certo fresco di pubblicazione, mi sono sentito in dovere di lasciare una risposta. Sono un giornalista in erba da appena un anno e mezzo, quasi ventunenne ed universitario. Vorrei far notare che esiste una quota di colleghi ben più vasta che ha totalmente mollato il vecchio sistema, in fondo proprio del giornalismo cartaceo, a favore di più flessibili esperienze di lavoro autocostruite online. Di fronte a prospettive di formazione sterili e ad anni di paghe misere o assenti, alla fine è più luminoso optare per esperienze concrete libere, a parer mio di certo più formanti. Gratuite, certo, ma più vicine allo spirito del giornalismo rispetto ad una scalata che della gavetta ha ormai ben poco.