Ricordi del Tempo che fu
Nel pomeriggio inoltrato di oggi una notizia ha ammantato di nostalgia una giornata tutto sommato ordinaria: il blog della collega Romina Vinci ha reso noto che con una comunicazione estemporanea delle ore 16, “Il Tempo” ha deciso di chiudere l’edizione regionale del Lazio. A questo punto, resta in piedi la redazione romana e quella abruzzese, che incorpora anche l’edizione molisana, da un annetto inserita in pianta stabile nell’inserto preparato a Pescara.
“Il Tempo” rappresenta nella mia vita professionale la mia personale scuola di giornalismo, una serie di relazioni e di colleghi che hanno costruito il mio modo di essere giornalista, la culla dove si è alimentata la mia passione e si è formata la mia tecnica, il quotidiano dove sono cresciuto e dove il mio nome, prima oscuro e nascosto nelle cronache calcistiche del lunedì, è diventato firma di punta della pagina teatina.
Non solo: quando, ragazzino di prima media già appassionato del mestiere, la scuola ci portò a Roma in gita, ci fecero visitare una redazione “vera”, potendo parlare con i giornalisti, i grafici, i tipografi. Era la redazione de “Il Tempo” a piazza Colonna.
Per questo, la notizia mi ha messo nostalgia. Quel giornale da tempo purtroppo non esiste più. Non esiste da un giorno che ricordo molto bene perché era la mattina della mia laurea, 22 giugno 1999. Tutta la redazione era lì nell’aula magna di Lettere per il mio 110 e lode, dopo sei anni di lavoro in un gruppo che era una famiglia ero ormai diventato uno di loro. Finiti i complimenti e gli applausi, loro tornarono nella nostra “casa comune”, l’ultima porta di corso Marrucino prima della “Trinità”, e trovarono un freddo fax che annunciava la chiusura della redazione a partire dall’indomani. Così, a freddo: e insieme, il licenziamento di 46 colleghi, la chiusura di quattro redazioni e tre uffici di corrispondenza.
Finiva un’era: una redazione, quella di Chieti, nella quale ho davvero imparato il mestiere “sul campo”. Le prediche di Giampiero sui miei “temi”, i rimproveri di Massimo che mi invitava ad essere incisivo e puntuale sulla notizia, la precisione saggia di Peppino, l’amore per gli archivi redazionali di Adriano, l’intuizione da cronista di Alfredo e la capacità di tradurre una notizia in una immagine di Valerio: erano questi i miei maestri, colleghi cari di una redazione-famiglia, nella quale avevo imparato anche a confidarmi ed a discutere di questioni personali, alla quale si accedeva con la chiave comune, che era stata data anche a me, collaboratore semplice, per permettermi di studiare i testi universitari quando arrivavo con l’autobus alle 10, troppo presto per l’apertura della redazione, dove a fine estate si faceva la festa del giornale, nel giardino retrostante, alla quale erano invitati i colleghi di tutto l’Abruzzo.
Era una redazione nella quale sapevi quando sarebbe arrivato il tuo turno per il contratto: io, che ero entrato nel 1993, avrei dovuto aspettare che l’articolo 36 allora presente venisse promosso articolo 12 e poi articolo 1, nel frattempo altri due collaboratori sarebbero diventati 36 e poi c’ero io. Male che andava, tra il 1998 e il 2000 avrei avuto anch’io il mio contratto. Era sempre capitato così, sin dagli anni Sessanta, quando aprirono le redazioni locali abruzzesi.
La crisi dell’editoria e il maledetto 1999 infransero i sogni, ma mi aprirono le porte per occupare, anche se solo da collaboratore, quegli spazi che erano riservati ai colleghi già contrattualizzati: la cancellazione della redazione (poi fisicamente sparita, dopo un’estate 1999 a dir poco esilarante vissuta tutta tra quelle mura) aveva comportato per me e per gli altri collaboratori la promozione sul campo. Io andai finalmente ad occuparmi di politica cittadina, la mia passione, e quella posizione accrebbe la mia visibilità e la mia possibilità di farmi conoscere. Mi si aprivano così le porte dell’altro importante segmento della mia vita, quello degli uffici stampa: in dieci anni prima la Regione, poi il Senato, alcuni Comuni, infine la Provincia.
“Il Tempo” ha rappresentato per me tutto questo, la possibilità di diventare quel che sono. Avrò sempre un debito di gratitudine verso di esso, ma questo non significa che non ne vedo i difetti, sempre più accentuati e sempre più difficili da accettare.
Leggere della chiusura anche dell’edizione laziale mi rende nostalgico, di quella famiglia che era il giornale e mi spiace che tutti i giovani collaboratori che negli ultimi dodici anni si sono avvicinati a “Il Tempo” non abbiano avuto la possibilità di vivere davvero una redazione, capire com’era quella vita, elettrica e tesa, ma tanto piena e palpitante, che si snodava giorno dopo giorno da mattina a sera. E se rimanevo a Chieti anche in serata, alle 23.00 c’era ancora la luce della stanza di Giampiero, il mio mitico primo caposervizio, che mi ha insegnato tutto del giornalismo senza farmi mai una lezione: stava ancora leggendo, riga per riga, parola per parola, tutta la pagina di Chieti per verificare che non ci fossero refusi e ripetizioni.
Ecco “Il Tempo” che fu. Un ricordo che non mi abbandonerà mai.