“I posti dei pasti: dalla locanda alla location”: la mia relazione oggi al conferimento dei premi dell’Accademia Italiana della Cucina

Questo pomeriggio, in occasione della consegna dei premi accademici assegnati su proposta della Delegazione di Chieti dell’Accademia Italiana della Cucina, ho avuto l’occasione di poter tenere una piccola relazione sul tema “I posti del pasti: dalla locanda alla location”, che ha preceduto il momento del conferimento dei premi veri e propri.

Ecco la trascrizione della mia prolusione:

Il titolo della relazione che mi è stata affidata in prima battuta potrebbe sembrare per l’appunto solo una battuta eppure se ci pensate un attimo sono tantissimi i nomi con i quali oggi chiamiamo i posti dove andiamo a “mangiare fuori” e spesso la distinzione di ciascun tipo di locale ormai è perduta nel linguaggio, specie dal punto di vista del marketing. Se consideriamo che nella lista di 374 ristoranti insigniti in Italia di una (328), due (35) o tre stelle Michelin (11), ci sono 13 osterie, 9 locande, 4 taverne, 4 enoteche e 3 trattorie, si può facilmente capire come siamo di fronte ad una sostanziale svalutazione del significato intrinseco del locale dove si va a mangiare, tant’è che ormai è invalso l’uso dell’inglese location, come termine universale, generico, che riassume tante caratteristiche, ma che dentro di esso contiene soprattutto una nuova concezione della conviviale, del pasto fuori casa, come sempre capita quando si scelgono nomi nuovi, del resto nomina sunt consequentia rerum!

Ma non andiamo troppo avanti, perché “location” è l’ultimo termine di questa cavalcata storico-linguistica.

Il primo nome della storia che indica il luogo dove si mangia fuori è taverna.

Un nome antichissimo, visto che era il sostantivo, taberna, con cui gli antichi Romani indicavano i locali pubblici aperti nei quartieri popolari per mangiare, per bere e pure per dormire. I poveri, dal momento che spesso non avevano un posto nelle loro insulae dove cucinare, si nutrivano nelle taverne, dove i ricchi non andavano mai. Spesso erano dotate di stanze dove dopo il pasto si poteva fare sesso a pagamento. Questo particolare è quello che ha reso la taverna un termine poco raccomandabile, specie dopo il trionfo del Cristianesimo nell’impero romano, riducendola ad un posto di malaffare e quindi condannando il sostantivo ad una damnatio memoriae che dura ancora oggi.

Per questo, durante i secoli della Roma imperiale, nasce un nuovo termine per indicare più o meno un luogo che offra gli stessi servizi della taverna, tranne quello, poco raccomandabile, del sesso a pagamento: locanda.

In origine la parola era usata come aggettivo, in espressioni come casa locanda, camera locanda, e chi ha pratica o ricordi di latino, non farà fatica a sentire dietro il termine “locanda” il suffisso del gerundio latino, quindi collegato al verbo locare, affittare. La “casa locanda” è la “casa da affittare”; est locanda «è da affittare» costituiva in alcune località dell’antica Roma e poi lungo il corso del Medioevo l’avviso posto sul portone di un edificio (o nei suoi pressi) per indicare che c’era un appartamento o altro ambiente da affittare.

Questo tipo di attività sorgeva in un primo momento soprattutto lungo le vie di passaggio, per esempio sulle rotte che percorrevano i pellegrini diretti a Santiago De Compostela o a Roma o, dopo la prima Crociata, a Gerusalemme, e in questi casi la possibilità di un giaciglio era importante quanto quella di poter mettere qualcosa sotto i denti. In ambienti come questi si offrivano cibi a lunga conservazione come pane, salumi, formaggi, carne secca, pesci in conserva; oppure piatti già pronti e facili da riscaldare con rapidità come verdure e legumi, minestre e stufati, meglio se tali da indurre a bere a dismisura, che poi era il vero introito delle locande.

Detto per inciso, la Chiesa, soprattutto nel Medioevo, si opporrà anche al business delle locande, nonostante siano al servizio dei pellegrini, per spingere i “buoni cristiani” a servirsi degli spedali, che – nonostante la parentela linguistica con gli ospedali, i nosocomi – erano tutt’altro che ricoveri per ammalati, ma domus hospitales, ossia “case di ospitalità”, gestite dai monasteri, che davano vitto ed alloggio per un giorno a chi raggiungeva i grandi santuari della fede.

Seguendo l’etimologia di hospitalis, dal sostantivo latino hospes, ospite, arriviamo all’osteria, che nasce nel Medioevo, attraverso il francese antico e si lega alla funzione e al lavoro del proprietario: oste, ostesse.

La prima attestazione di hostaria risale ai capitolari della magistratura dei Signori della Notte, che si occupava della tranquillità notturna della Venezia del XIII secolo.  Anche in questo caso l’etimologia ci porta a considerare quella che era una delle funzioni principali delle osterie: l’ospitalità e non solo il mangiare e il bere, poiché non mancavano mai camere dove dormire. Un’altra caratteristica delle osterie era quella di venire segnalate da nomi e insegne riconoscibili (chi non ricorda la manzoniana Osteria della Luna Piena, dove si rifugia Renzo dopo l’arringa fatta a Milano?), l’emblema che ne rendeva palese la presenza ai viandanti era spesso una frasca sopra la porta, cui si deve l’antico proverbio “Chi non vuol l’osteria levi la frasca” e soprattutto il nome delle fraschette, ancor oggi in uso nella zona dei Castelli Romani.

Come potete notare, non è sempre agevole distinguere, dal punto di vista della funzione, la taverna dall’osteria o dalla locanda. Vero è che nella prima, oltre che acquistare del vino, si poteva soprattutto bere, magari stimolando la sete con cibi preparati allo scopo, e talvolta mangiare, mentre nei secondi si cercavano soprattutto un letto e un posto nella stalla per il cavallo o gli animali da soma; ma non era raro il caso in cui le due offerte si sovrapponevano. Una diversità sostanziale tuttavia c’è: osterie e locande erano destinati soprattutto a gente di passaggio, mentre fondamentalmente la taverna era punto di ritrovo della gente dei dintorni e, prima che, verso la fine del XIII secolo, nascessero altri esercizi commerciali, luogo di vendita di prodotti diversi.

Ma, sempre nelle cosiddette tenebre del Medioevo – periodo molto più fecondo di novità e di dinamismo rispetto ai secoli successivi – si affaccia finalmente un termine che indica solo ed esclusivamente un luogo dove si mangia e si beve: trattoria.

Il nome di questi locali discende da quello del trattore e deriva dal francese traiteur – che si basa a sua volta sul lemma traiter, proveniente dal latino tractare: cioè preparare, qui inteso come cucinare, evidentemente.

Un traiteur è un venditore di cibo francese: prima della fine del XVIII secolo, i commensali che desideravano “cenare fuori” potevano farlo da un traiteur o ordinare da questi dei pasti da asporto. La corporazione dei cuochi e dei ristoratori, informalmente nota come traiteurs, rivendicò progressivamente il diritto di preparare pasti sofisticati, lasciando che locande e taverne si occupassero principalmente di arrosti o carne alla griglia.

Nel XVIII secolo nasce per questo motivo “di distinzione” del menu il termine, anch’esso francese, di ristorante.

Il termine è un adattamento del verbo latino ristorare, letteralmente “far riprendere le forze” attraverso il francese restaurant, ed indicava nella Francia dell’Illuminismo quell’esercizio pubblico dove si consumano pasti completi che vengono serviti da camerieri su tavoli disposti in un locale apposito. Insomma, il termine indica o vuole indicare un esercizio di categoria più elevata della trattoria, che già a sua volta si voleva distinguere da osteria e da locanda. Così trattoria finì per indicare un luogo di qualità inferiore rispetto al ristorante.

Arriviamo finalmente ai giorni nostri, dove questi nomi antichi, tutti con la loro funzione e la loro storia secolare, iniziano a sovrapporsi, più per ragioni di marketing che di reale distinzione degli esercizi commerciali tant’è che si sta affermando la deleteria abitudine di indicare il luogo scelto per andare a mangiare (si pensi soprattutto ai banchetti per le cerimonie) con il termine generico, inglese, di location. Che, beninteso, non significa, come molti credono, genericamente “luogo”, adattandosi a tutti i contesti, ivi compreso quello conviviale. In realtà, location è un termine tecnico della cinematografia e significa “esterno”, ossia uno dei luoghi utilizzati per le riprese di un film, per simularne l’ambientazione. Con l’affermarsi del  cineturismo, quella tendenza del turismo di massa che si sposta per vedere i luoghi dove si sono girate le pellicole più in voga, location diventa per metonimia un posto dove si può vivere un’esperienza particolare di “immersione” in una realtà magica, fantastica, da film, appunto.

Quello che appunto spesso sono diventati i banchetti: un’immersione in una finta realtà (in questo il Boss delle Cerimonie ha fatto scuola) in cui il mangiare diventa solo un pretesto e dove il cibo diventa un’icona, tanto che viene fotografato e dato in pasto… letteralmente… ai social.

 

Ed ecco, per chi lo preferisce, il video del mio intervento:

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