“I pasti slittano con il tempo”: la mia relazione alla giornata “Accademia in Famiglia” a Bucchianico

Oggi sono stato tra i protagonisti della giornata “Accademia in famiglia” che ha organizzato, come ogni anno, il Coordinamento Territoriale Abruzzo dell’Accademia Italiana della Cucina. Il tema di quest’anno è stato “Pranzi e parole al tempo”, con tre relazioni che hanno evidenziato l’evoluzione dei pasti tradizionali d’Abruzzo. La terza relazione è stata quella che ho proposto io, in chiusura del momento culturale.

Ecco il testo del mio intervento:

 

Vi siete mai chiesti perché ci riferiamo al pasto del mattino con il nome di prima colazione? Se c’è una “prima” colazione, significa che ce ne dovrebbe essere una seconda, ma nel nostro sistema linguistico, almeno nelle nostre abitudini, di questa seconda colazione non ce n’è traccia.

Ma quando viene in visita un Capo di Stato o un ambasciatore non avete mai sentito in tv oppure visto in un invito il termine colazione di lavoro? Ci siamo immaginati che ministri, industriali, rappresentanti istituzionali si incontrano sorseggiando caffè o tè e gustando pasticcini? Poi vediamo che tale “colazione” si svolge attorno alle 13 ed abbiamo capito che si trattava di un pranzo. Ma allora perché chiamarlo colazione?

Quando parliamo del nome dei pasti della giornata ci riferiamo non semplicemente ad un sostantivo che indica un preciso momento temporale, ma esso fa riferimento anche a consuetudini che cambiano sia nel corso del tempo, sia soprattutto a seconda della classe sociale a cui si appartiene.

Se fino al termine del Settecento, le consuetudini sociali erano più o meno simili in gran parte del Vecchio Continente e nei vari strati sociali, con qualche variazione poco significativa, legata agli orari di lavoro, è all’inizio dell’Ottocento, dopo l’avventura napoleonica, che sconvolse l’intera Europa non solo dal punto di vista militare, che iniziano a manifestarsi dei profondi cambiamenti nelle abitudini delle classi dominanti, che per buona parte del XIX secolo era ancora la nobiltà “di spada e di toga”, come si diceva allora, ma dopo la “primavera dei popoli” e ancor di più dopo la Rivoluzione Industriale, era l’alta borghesia industriale, commerciale e poi finanziaria. 

Da sempre, linguisticamente parlando, il pasto principale della giornata era il pranzo (in francese diner , in inglese dinner), consumato tra mezzogiorno e le 13, che era preceduto dalla colazione (dejeneur , breakfast) e seguito, a sera, dalla cena (souper, supper): una tripartizione che traeva origine dai pasti dell’impero romano, ientaculum, prandium, coena con la sola differenza che a Roma, così come nella Grecia antica, il pasto principale era quello serale. Nel Medioevo, stante il fenomeno della ruralizzazione della vita e poi con l’affermarsi dell’economia curtense, il pasto principale si era spostato a metà giornata.

Quindi, linguisticamente, quando parliamo di “pranzo” ci riferiamo al “pasto principale della giornata”. Un’osservazione importante per comprendere lo slittamento temporale e quindi il cambiamento dei vari nomi che indicano i pasti nel corso degli ultimi due secoli e mezzo.

Per essere molto sintetici, a cavallo tra XVIII e XIX secolo le classi dominanti hanno iniziato ad attribuire al “pranzar tardi” la valenza di un vero e proprio status symbol, che li differenziava dalle classi inferiori che, gravate dal lavoro, contadino oppure operaio, e che quindi si svegliavano presto, avevano perciò la necessità di un pasto rinforzato attorno a mezzogiorno/l’una dopo almeno cinque ore di lavoro, per poi chiudere la sera con un pasto più leggero, ma comunque non piccolo. 

Tale tendenza si riscontra a Parigi già nel 1782: il nostro Goldoni, vent’anni prima, appena arrivato nella capitale francese si lamentava in una lettera che non poteva invitare gli amici a pranzo quando si sbrigava con il suo lavoro, intorno alle 14, mentre in quel 1782 scrive nei Memoir che la buona nobiltà si metteva a tavola proprio alle 14. In Inghilterra, grazie alle lettere di Johnatan Swift sappiamo che già all’epoca della regina Anna Stuart, morta nel 1714, i ministri di corte erano soliti andare al dinner tra le 15 e le 16 anche se l’orario è definito dal grande scrittore “insolito” e giustificato dalla ragion di Stato, per sbrigare tutti gli affari reali. Nella Russia degli zar, il pranzo era fissato inequivocabilmente alle ore 14, come testimonia una lettera del 1820 dello scrittore Vasilij Porfiric. 

Ebbene: nel corso dell’Ottocento, dopo la “paura” napoleonica e la Restaurazione, la nobiltà, che si era sentita assediata dai borghesi e dai popolani, sentì sempre più forte la necessità di distinguersi dalla massa dei cittadini soprattutto nelle abitudini di vita. Ecco allora che il nobile, non gravato dalla necessità di lavorare, si svegliava sempre più tardi la mattina e per questo prendeva la sua colazione ad orari quasi prandiali: le 11, le 12, spesso anche le 13. Era evidente che il pasto principale scivolasse più in là lungo il pomeriggio. Questa tendenza si afferma in primo luogo in Inghilterra, dove la consuetudine dei balli di corte fino a notte fonda, costringe la nobiltà a svegliarsi molto tardi la mattina e quindi a far slittare il dinner fino a metà pomeriggio. Per tutto l’Ottocento è una rincorsa continua verso il pranzo che alla fine del secolo è fissato quasi sempre attorno alle 19.

In Francia la moda inglese dilaga ben presto nelle classi dominanti: è vero che i regni di Luigi XVIII e Carlo X non erano molto fastosi, ma l’abitudine a tirar tardi la notte fa in modo che il diner francese si sposti, già nel 1830, alle 17 o anche 18, per poi sfondare alle 19 o alle 20 nel corso del Secondo Impero, quello di Napoleone III, dove i fasti della corte tornano a quelli di un tempo. Addirittura in Francia questo costume di spostare il pasto principale sempre più tardi contagia anche gli orari degli uffici pubblici, i cui sovrintendenti sono parte dell’alta borghesia, il nerbo che sostiene il Secondo Impero: per questo da un originario orario degli uffici che prevedeva l’apertura mattutina dalle 9 alle 12 e la riapertura dalle 15 alle 18 per il turno pomeridiano, a metà Ottocento gli uffici pubblici e privati facevano un solo lungo orario dalle 8 alle 16 per permettere poi il diner nel tardo pomeriggio.

E in Italia? Ovviamente, la moda francese arriva presto anche da noi. Alessandro Manzoni invitava a pranzo gli amici alle 17, ma dopo l’Unità d’Italia il pranzo non è fissato mai prima delle 18, con una tendenza a farlo slittare alle 19. Il poeta satirico Giuseppe Gioachino Belli prende in giro la borghesia romana in un sonetto che si apre così: “Doppo-pranzo il sor Michele dà un pranzo”.

A dir la verità, in Germania e in Svizzera rimangono molto tradizionalisti, con colazione alle 9, pranzo alle 13 e cena alle 21, mentre in Russia la corte degli zar si “occidentalizza” presto e già con Alessandro III siamo agli orari di Francia e Inghilterra.

Tutto questo slittare verso la sera, costringe però i nobili e l’alta borghesia a fissare un leggero pasto che spezzi la fame tra la colazione vera e propria e il pranzo (di sera), mentre ovviamente la cena sparisce. Ecco che in Francia nasce il dejeneur à la fourchette, un piccolo pasto consumato tra le 13 e le 14 che è una “colazione alla forchetta”, ossia che non ha come base latte o caffè con i biscotti, ma pietanze da mangiare con la forchetta. Un uso che ha così tanto successo che iniziano a circolare gli inviti a questo nuovo tipo di pasto e le case di nobili e borghesi si adattano alla novità, così come in Inghilterra dove la novità piace così tanto che si modifica anche il lavoro del Parlamento, convocato dalle 14 alle 19, tra i due “nuovi” pasti. 

E la cena? Abbiamo detto prima che spariva, ma non sempre. I più incalliti nottambuli, dopo i balli che non terminavano prima dell’una di notte, erano abituati a sedersi al tavolo da gioco, fino a non prima delle 4: ecco, in quella sede, si facevano portare una piccola “cena”, generalmente “al cucchiaio”, per tenere lo stomaco e permettere di giocare contemporaneamente.

Tutto questo ovviamente sconvolge il sistema linguistico.

Ricapitoliamo ed arriviamo alla conclusione:

Il pranzo / diner / dinner si sposta alla sera, ma rimane quello il nome poiché indica il pasto principale della giornata. Oggi in Francia e in Inghilterra diner e dinner significano automaticamente “cena”, o meglio i parlanti, e anche noi che traduciamo, così la intendono.

Il dejeneur à la fourchette diventa la colazione per eccellenza, quindi semplicemente “dejeneur”, che in Inghilterra prima si ostinano a chiamare ancora breakfast, ma poi cambia il nome in lunch, che anche oggi indica il veloce e leggero pasto di mezza giornata. In Italia, in linea con il francese, questo pasto leggero prende il nome di “colazione alla forchetta”, poi semplicemente “colazione”, ed ecco perché rimane nel linguaggio formale l’indicazione “colazione di lavoro”, nel senso di un leggero pasto di metà giornata durante il quale si sbrigano anche gli affari correnti. Tra l’altro “dejeneur” in Italia crea il verbo “desinare” che si usava fino a una cinquantina di anni fa (pensate ai film di don Camillo e Peppone) per indicare il pranzo leggero di metà giornata.

E la colazione del mattino? Viene retrocessa in Francia come “petit dejeneur”, piccola colazione, in Italia come “prima colazione” e in Inghilterra rimane breakfast, che nel nome mantiene l’idea della velocità.

La bistrattata cena nel francese (souper) sparisce, mentre nell’inglese (supper) resta per indicare lo spuntino di tarda sera.

Quello però che è successo nel francese e nell’inglese, lingue che hanno un forte centro di irradiazione linguistica – Parigi e Londra – e che quindi influenzano tutto il resto della nazione, non è capitato nell’italiano, dove i nomi dei pasti erano radicati fortemente con l’orario in cui essi si consumavano, perciò con il boom economico e l’industrializzazione e il ritorno ad un diverso stile di vita, abbiamo mantenuto la tripartizione “colazione”, “pranzo” e “cena” ma qua e là nei vocabolari o nel linguaggio formale riemergono i segni di uno slittamento di significati e di lessico che ha investito l’italiano nel corso dell’Ottocento e del Novecento.

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